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Dettagli

1998
27 ottobre 1998
2048 p.
9788804452881

Voce della critica


recensioni di Coletti, V. L'Indice del 1999, n. 01

Stefano Verdino ha costruito per il suo amico Mario Luzi un vero e proprio monumento. Questo Meridiano infatti non solo contiene in 1238 pagine tutta la produzione poetica edita da Luzi in oltre sessant’anni di scrittura in versi (e assaggi, in verità non esaltanti, di quella in gestazione), ma la correda di un apparato critico di seicento pagine, che è uno dei migliori commenti che io conosca all’opera di un poeta del nostro secolo. In esso, infatti, una ben selezionata documentazione filologica del lavoro preparatorio e delle varianti dei singoli componimenti si unisce a un vasto commento affidato soprattutto ad altri testi (editi e no) dell’autore, con risultati di grande utilità e chiarezza per il lettore. In particolare, Verdino ha abbondato negli "autocommenti" del poeta, che in parte egli stesso ha ripetutamente sollecitato, come mostrano gli utilissimi, spesso molto precisi e mirati all’esegesi puntuale, dialoghi tra lui e l’autore, pubblicati qualche anno fa e qui riediti col titolo di A Bellariva.

Intorno ai versi di Luzi, il curatore ha poi disposto biografia e bibliografia, e un articolatissimo saggio che ripercorre tutto il lungo itinerario poetico dello scrittore. Verdino ha una conoscenza così ravvicinata (forse anche troppo, un po’ troppo, come dire, "aderente") dell’opera luziana che è in grado di vedere differenze e specificità delle singole raccolte, anche là dove un lettore meno avvertito coglie soprattutto ripetizioni e ribadimenti. Ma non si può non concordare con lui quando segnala la grande differenza non solo tra il recente e maggior Luzi del Battesimo dei nostri frammenti (1985) e il primo, o quasi, di Avvento notturno (1940), ma tra il Luzi di Onore del vero (1957) e quello di Quaderno gotico (1947). Verdino intende, giustamente, riscattare il poeta da un giudizio critico che lo ha inchiodato troppo a lungo al ruolo di capofila di un ermetismo da Luzi ampiamente e assai presto (e prima di tanti altri, pur, nella vulgata critica, ritenuti meno "ermetici" di lui) superato. In realtà (e qui sono meno propenso di Verdino a vedere, sull’altro piatto della bilancia, continuità e collegamenti), se non fossero firmati dallo stesso nome, pochi potrebbero dire che i versi vertiginosamente assoluti e iperanalogici (e oggi quasi illeggibili) di Avvento notturno siano stati scritti dallo stesso poeta, anche senza andare cronologicamente oltre, di Nel magma. Voglio dire che se è abbastanza plausibile che uno stesso autore sia partito da una perlustrazione generosa e caritatevole verso tutte le manifestazioni della vita (il Luzi post anni cinquanta) e sia poi arrivato alla fondazione metafisica (la compresenza del tutto, l’eternità del presente, il neoplatonismo delle ultime raccolte) che la spiega, non è per nulla ovvio come uno scrittore che abitava (nell’anteguerra) distanze ambiziose e arcidotte, visività raggelate e mitiche sia poi potuto diventare il (persino troppo) fluente poeta della "umbilicale carità" con cui tutto e tutti si legano nel creato, il recentissimo autore di narrazioni luminose, di visioni intense e calde, piene di compassione e di passione per l’uomo (si pensi al Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, 1994).

Sia dunque onore a Mario Luzi, per aver saputo così radicalmente modificare la rotta della sua poesia, assecondare con la scrittura la propria evoluzione di uomo e di intellettuale.

Vista ora nel suo complesso (e almeno nel tratto più importante, che parte dalla sezione intitolata Nell’opera del mondo degli anni sessanta e giunge a Frasi e incisi di un canto salutare del 1990), la poesia di Luzi si impone – ha ragione Verdino – come la più clamorosa e simmetrica antitesi di quella dell’altro grande del secondo Novecento, il suo amico Giorgio Caproni. Proprio l’amicizia, la stima reciproca, la comune sensibilità filosofica e teologica esaltano la differenza tra Luzi e Caproni. Non c’è tema che essi abbiano toccato senza ricavarne conclusioni opposte. Armato, Luzi, di una fede (per altro molto libera e assai poco confessione e clericale, come si vede nel bel libro di dialoghi con lo stesso Verdino, La porta del cielo, edito da Piemme nel 1997) che la religiosità affamata e furente di Caproni non poté permettersi, egli crede nella salvezza del mondo, nell’attività redentrice di un logos insito da sempre – seminatovi coll’atto di creazione – nell’universo, intravede un progetto di amore e di riscatto anche là dove sembrano dominare il buio e il nulla. Di qui, ad esempio, il diverso (rispetto a Caproni) contatto con i morti e segnatamente con la madre. Se l’Annina caproniana varca le soglie dell’aldilà con l’angoscia muta di chi sa di aver perduto tutto, la madre di Luzi ha ancora un filo di voce per i sopravvissuti ("la scienza silenziosa / dei morti in Dio") e lancia loro un messaggio di speranza, di futuro, che è, va notato, anche l’opposto del lamento e della paura d’abbandono che assalgono un’altra grande "ombra" della nostra poesia, quella, in Montale, del padre in Voce giunta con le folaghe. E se Caproni impreca alla fuga, all’assenza, all’indifferenza di Dio, Luzi, da un analogo dubbio ("mai stato? // o morto"), vede emergere una santa omologia tra umano e divino, il segno con cui Dio consacra, partecipa e giustifica perfino la morte, la perdita, l’assenza di Sé nell’uomo contemporaneo. Anche per questo, il male si presenta in Caproni sempre con la maiuscola del proprio statuto ontologico, della sua eterna immanenza, e in Luzi, invece, si offre nelle forme tragiche ma relative, contingenti delle sue epifanie storiche, particolari (terrorismo, Cambogia, Vietnam).

E che dire del diverso rapporto dei due col linguaggio? Luzi, nonostante l’esitazione di un discorso che si svolge per "frasi e incisi", è poeta che crede nel ruolo della parola, che rivendica per sé una "tesa volontà di dire", laddove Caproni si ritrae inorridito davanti alla Bestia del linguaggio umano, che divora la realtà di cui parla. Per Luzi cose e nomi possono, debbono, alla fine dei tempi, ritrovarsi come erano all’inizio, uniti nel gesto d’amore che ha fatto l’universo; e la poesia è un modo per percorrere avanti e indietro, con le sue infinite domande, questo cammino della lingua, fino a raggiungere o almeno a ricreare, a simulare la pienezza originaria e finale. Per Caproni reale e linguaggio si distanziano all’infinito e la poesia può solo ricostruire e dichiarare questa perdita, questo distacco.

Ne discendono l’abbondanza di parole nell’uno, la selezione impietosa della grammatica nell’altro. La lingua di Luzi mima – con la sua sintassi rovesciata (il soggetto spesso posposto), il suo andamento a ritroso, le prolessi di fatto ritardanti – la risalita a quelle fonti che Caproni giudicava irraggiungibili e forse mai state. La certezza heideggeriana di un’Origine e quella cristiana di un Fine sostengono anche le scelte lessicali di Luzi, assai più varie e radicali (dal parlato all’iperdotto come osserva Verdino) di quelle, misuratissime, di Caproni. Persino il silenzio dice nei due cose diverse; e se in Caproni è indice del vuoto, della mancanza, della distanza dell’essere, in Luzi (in questo più vicino alle vecchie matrici simboliste e novecentesche) è segno di un infittirsi, di un moltiplicarsi o almeno di un incubare, di un maturare del senso; è disposizione all’ascolto del sommesso brusio che parla da sotto l’"accidentata palta" del mondo. Per quanto sorprendente e opinabile, è davvero bella la formula conclusiva di Verdino, che definisce Luzi "poeta dell’estremismo", di un estremismo appunto della parola poetica che si misura sempre "con un’altra parola... la Rivelazione".

Luzi e Caproni nella loro vecchiaia, hanno intensificato con esiti eccezionali la vocazione filosofica insita nella loro poesia e, più in generale, in quella di tutto il Novecento. Che i "Meridiani" li abbiano, con due grandi eventi editoriali, appaiati a così breve distanza di tempo è forse un caso, ma ha una ragione chiara. Essi rappresentano due itinerari poetici che scavalcano il secolo e si offrono già all’ascolto dei posteri.

A te più giovane

Le strade per cui parti dalla vita

e vi torni, non una innumerevoli

volte, i passi che portano lontano

e quelli che risalgono il versante...

che mi viene di là ora? Memorie,

ambagi, è nulla, è come quando

una città pensata nella veglia

se dormi, s’addormenta sul tuo cuore

con i suoi trivi, i suoi vicoli strani

da porta a porta fino al fiume. Esisti,

quale affanno rinnovi e ne fai parte

al mio cuore che n’è già stanco! Guardo

sorpreso tutto quel che vive

e passa e non ha quiete come te,

o il succedersi in casa delle serve

e in Padova il variare dell’issopo.

Firenze 13-12-70

gentile signora,

è vero, il verso è un po’ sibillino, a doversi spiegare.L’issopo è una pianta cangiante e i giardini del Veneto ne sono, credo, più ricchi di quelli di qualsiasi altra parte d’Italia. Nel 1949 feci un soggiorno assai prolungato a Padova: tutte le mattine mi recavo alla Clinica Morgagni, a Santa Giustizia che ha un parco assai folto.Fu lì che scoprii la bellezza e soprattutto la mutevolezza dell’issopo. Così la sua immagine venne captata e associata al giro di pensieri che mi occupavano e da cui anche il testo in questione ha avuto origine: pensieri sul mutamento appunto e sulla immobilità profonda del tutto: i pensieri di Primizie del deserto, insomma.

Non so se queste confidenze possono bastarle.Lo spero. La ringrazio comunque dell’attenzione e dello scrupolo esemplare.

Con i più cordiali saluti che la prego di estendere ad Arpino, il suo

Mario Luzi

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La recensione di IBS

Il Meridiano dedicato a Mario Luzi, uno dei più importanti poeti viventi, comprende tutte le raccolte poetiche e un consistente numero di inediti. L'apparato critico - oltre a registrare le varianti dei testi a stampa - offre numerose informazioni sulla genesi dei testi e sulle loro ascendenze letterarie. La cronologia è ricca di documenti epistolari inediti tra Luzi e i più grandi poeti e intellettuali del Novecento.

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Mario Luzi

1914, Castello

(Firenze 1914-2005) poeta italiano. È stata una delle figure cardine del Novecento italiano. Al 1935 risale la sua prima raccolta, La barca, cui è seguito Avvento notturno (1940), testo esemplare dell’ermetismo fiorentino. Foltissima la produzione successiva, che scandisce le tappe e gli sviluppi di un itinerario poetico fra i più ricchi e coerenti del suo secolo: Un brindisi (1946), Quaderno gotico (1947), Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), confluiti con altri versi sparsi in Il giusto della vita (1960), Nel magma (1963), Dal fondo delle campagne (1965), Su fondamenti invisibili (1971), Al fuoco della controversia (1978, premio Viareggio), Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), Frasi e incisi di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre...

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