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Il principio dell'handicap - Zahavi - copertina
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Il principio dell'handicap - Zahavi - copertina
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Descrizione


E' possibile che organi e comportamenti apparentemente "deboli" favoriscano la sopravvivenza di una specie? Una ipotesi scientifica profondamente innovatrice, destinata ad accendere una vivace discussione negli studi sull'evoluzione.
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Dettagli

1997
1 gennaio 1997
9788806144791

Voce della critica


recensione di Carere, C., L'Indice 1998, n.11

Ecco un libro - fondamentalmente un saggio sui segnali e la comunicazione animale - destinato a far parlare di sé a lungo con spunti di critica accesa - presumiamo. Comunque di agile lettura e indubbiamente piacevole soprattutto per il profano. Il testo originale è in ebraico e la versione italiana proviene da quella inglese, della Oxford University Press.
Niente di nuovo, in realtà (la prima stesura risale a oltre dieci anni fa), dato che il principio dell'handicap era balzato agli occhi dei biologi che studiano i processi evolutivi già verso la metà degli anni settanta, quando molti di loro erano impegnati a tentare di formalizzare in algoritmi il credo e il "know-how" darwiniano. All'epoca le spiegazioni che Zahavi forniva su comportamenti bizzarri come i salti della gazzella di fronte al predatore ("stotting") suscitarono dissensi, ma soprattutto curiosità. Di fatto, prestigiose riviste scientifiche internazionali come "American Naturalist" e "Journal of Theoretical Biology" accettarono di pubblicarne i presupposti teorici e relative applicazioni. Solo che inizialmente i modellisti che tentarono di spiegare il principio dell'handicap in termini matematici fallirono miseramente, dunque il risultato fu la bocciatura.
Ma Zahavi, israeliano e docente di zoologia all'Università di Tel Aviv, rimaneva convinto delle proprie elucubrazioni teoriche al punto che quando Richard Dawkins - noto sociobiologo e divulgatore di Oxford - con tono scettico gli fece notare che la logica conclusione dell'applicazione del principio dell'handicap alla teoria della selezione sessuale sarebbe stata l'evoluzione di maschi con una sola gamba e un solo occhio, egli replicò immediatamente: "Alcuni dei nostri migliori generali hanno un occhio solo". E recentemente anche i modellisti teorici più spinti - tra cui Alan Grafen dell'Università di Oxford - hanno dimostrato che il principio dell'handicap è generalmente valido, rappresentando una convalida di attendibilità per le comunicazioni tra individui in competizione.
Il principio dell'handicap è applicabile con una certa semplicità a tutte le situazioni in cui alcuni individui cercano di giudicare la qualità di altri individui. Un maschio che corteggia una femmina è il caso più in voga. Due le tesi centrali: la prima è che i segnali devono essere attendibili, ma per esserlo devono essere costosi, in altre parole gli animali "investono" tempo ed energia nei segnali; la seconda è che esiste sempre una relazione logica tra segnale e messaggio trasmesso, il problema semmai è trovarla.
Amots Zahavi, che iniziò come ornitologo proponendo che gli assembramenti di uccelli costituiscano centri di scambio di informazioni fra individui, sale alla ribalta negli anni d'oro della sociobiologia (attorno al 1975); purtuttavia - è in effetti un sociobiologo "sui generis" - raramente viene citato dai detrattori del determinismo genetico e dell'adattazionismo. Viene invece a più riprese citato con un senso crescente di ammirazione e curiosità da Dawkins nella prima, e ancor più nella seconda, edizione del "best seller The selfish gene" (1976, "Il gene egoista", Mondadori, 1989). A suo favore possiamo dire senza ombra di dubbio che, a differenza di certi oratori e divulgatori da tempo lontani dalla raccolta dei dati e dagli esperimenti, Zahavi è un etologo - o meglio un ecologo comportamentale - che ha effettuato oltre ventimila ore di osservazione sui garruli, passeriformi sociali delle garighe israeliane, e che tuttora lavora soprattutto sul campo coadiuvato da un "team" internazionale di studenti e dottorandi. Insomma uno che gli animali li osserva sul serio, per mestiere.
Dunque la teoria non è affatto rivoluzionaria - come si afferma un po' sfacciatamente nella quarta di copertina -, piuttosto il libro si presenta come una vera e propria rivisitazione dei principali temi dell'ecologia del comportamento (interazioni preda-predatore; comunicazione inter- e intra-specifica; comportamento socio-sessuale; cure parentali e sistemi nuziali; altruismo reciproco e cooperazione; ospiti e parassiti) in una interpretazione che può apparire tanto limpida e chiara quanto contorta e decisamente bizzarra o forzata a seconda degli esempi; è questo il limite e nel contempo il pregio dell'opera. Il lettore può sentirsi appagato e soddisfatto, sconcertato, o perlomeno dubbioso, a seconda degli esempi comportamentali che si trova di fronte.
Così il "begging" (letteralmente elemosinare) dei nidiacei, quei pigolii continui emessi dal nido e a tutti noi familiari, per i coniugi Zahavi è rivolto deliberatamente ai predatori. Un vero e proprio ricatto verso i genitori che per farli smettere non possono far altro che nutrirli. Dal punto di vista della prole, i nidiacei ottengono più cibo, correndo però una certa dose di rischio.
Le code di uccelli come pavoni o fagiani, gli imponenti e ingombranti palchi dei cervi maschi, il dente ipersviluppato del narvalo, insomma tutti quei caratteri selezionati in base al sesso, paradossali in un certo senso in quanto handicap per chi li possiede, si sono evoluti proprio in quanto tali. Un pavone maschio con la sua enorme coda tenta di dimostrare alle femmine che è talmente bravo da poter sopravvivere nonostante quell'ingombro.
Sui salti ostentati delle gazzelle di fronte a un predatore, gli autori, portando a conclusione un'idea dello zoologo Smythe che risale al 1970, ritengono che questo peculiare comportamento, come i richiami dei nidiacei, venga in ultima analisi notato da altri conspecifici, ma "in primis" sia diretto al predatore per "avvertirlo" della difficoltà che incontrerà nel tentare di catturare una preda così agile e in salute.
Gli autori ritengono che dall'osservazione del comportamento dell'uomo possiamo comprendere molto del comportamento degli altri animali, assai più di quanto i modelli teorici ci aiutino a fare. Per questo i paralleli con usi e abitudini umane infarciscono anche vivacemente la trattazione per culminare nell'ultimo capitolo ("Gli esseri umani") interamente dedicato all'"Homo sapiens". Ma sulle pecche e l'abuso dell'antropomorfismo e dei paralleli uomini-animali gli autori - ben consci dei rischi connessi - si difendono elegantemente già nelle prime pagine: "Un modello è uno strumento e i modelli antropomorfici quanto meno sono più vicini al comportamento animale di quanto non lo siano quelli matematici; e i modelli non sono prove, ma solo suggerimenti".
Discutibile è però il modo in cui gli autori osservano e interpretano i processi evolutivi: traspare talora quel "telos", o fine ultimo - spesso individuato nel successo riproduttivo di un dato individuo - che oggi appare visione superata se non anacronistica. Perché il mondo dei viventi - e la carrellata di esempi zoologici di cui il libro è costellato ne è testimone sincero - è un insieme di traiettorie evolutive, un po' come dei fuochi d'artificio che si irradiano nel cielo, esplodono, si diramano ulteriormente, si rincorrono, discendono. Non proprio un semplice percorso rettilineo.
Non abbiamo di certo trovato il pezzo mancante del puzzle di Darwin come vuole suggerirci il titolo originale ("The Handicap Principle. A Missing Piece of Darwin's Puzzle"); tuttavia avremo una base solida o almeno persuasiva per spiegare perché un animale fa qualcosa che ci sembra pazzesco: può darsi che si stia mettendo in mostra per farsi notare da un individuo dell'altro sesso. Il rischio, il costo, la pericolosità, danno al gesto il potere dimostrativo, questo è fuor di dubbio. E in fondo chi di noi non ha fatto qualche piccola o grande pazzia per amore?

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