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Quella cosa intorno al collo - Chimamanda Ngozi Adichie - copertina
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Quella cosa intorno al collo

Descrizione


Chimamanda Ngozi Adichie illumina senza sentimentalismi ma con matura compassione intime e crude verità di due mondi a lei ben noti, la Nigeria e gli Stati Uniti.

Finalista Premio Bonari Lattes Grinzane 2017

«Adichie scrive con un'economia e una precisione che rendono familiare ciò che è insolito. Nelle sue mani l'arte della narrazione appare naturale come il canto di un uccello.»

In questi racconti Chimamanda Ngozi Adichie delinea lucidamente e senza reticenze patriottiche gli aspetti più problematici della società nigeriana, attraversata da scontri religiosi, omicidi politici, corruzione, brutalità nelle carceri e maschilismo. Tra senso di smarrimento e più concreti problemi di soldi e di documenti, risulta però altrettanto chiaro che neppure l'emigrazione assicura una vita felice, nello specifico in quell'America che, seppure tanto vagheggiata, vista da vicino è ben diversa dal paradiso di ordinate villette unifamiliari dipinto in certi film. Gli affetti, i sapori e le usanze di casa continuano infatti a tormentare le protagoniste dei racconti di Adichie, che siano arrivate negli Stati Uniti quasi per caso, sposando un uomo ricco che poi le ha parcheggiate nell'agio di una terra straniera con figli e domestica, oppure dopo aver atteso per anni il ricongiungimento con il compagno. A dare il titolo alla raccolta è la storia di Akunna, una ragazza che vince la Green Card e che, dopo essersi scontrata con la dura filosofia del «dare per avere», ha quello che nell'opinione di molti sarebbe un incredibile colpo di fortuna. Ma liberarsi di «quella cosa intorno al collo», un soffocante senso di solitudine e non appartenenza, è tutt'altra cosa. Particolarmente toccanti sono i racconti "L'ambasciata americana" e "Domani è troppo lontano". Nel primo la protagonista, che all'improvviso si è ritrovata in un incubo, attende in fila sotto un sole cocente l'apertura dei cancelli dell'ambasciata americana, dove si appresta a fare domanda di asilo politico. Insensibile alla folla, riesce a pensare solo al figlio e alla macchia, rossa come olio di palma fresco, che ha visto allargarsi sul suo petto. Nel secondo, invece, sullo sfondo di un afoso e lussureggiante giardino pieno di ricordi, una ragazza è costretta dalla morte della nonna a rivivere la tragica sera dell'infanzia in cui ha perso l'amato fratello maggiore.
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Dettagli

2017
31 gennaio 2017
213 p., Rilegato
9788806201005
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Indice

Le prime frasi del romanzo

La prima volta che ci hanno rubato in casa, è stato il nostro vicino Osita a entrare dalla finestra della sala da pranzo e a far sparire la tv, il videoregistratore e i nastri di Purple Rain e Thriller che mio padre aveva portato dall’America. La seconda volta, è stato mio fratello Nnamabia a fingere un furto con scasso e a rubare i gioielli di mia madre. È successo di domenica. I nostri genitori erano andati a trovare i nonni a Mbaise, la nostra città natale, e Nnamabia e io eravamo andati a messa da soli. Aveva guidato lui la Peugeot 504 di mia madre. In chiesa ci eravamo messi l’uno accanto all’altra, come al solito, ma senza darci di gomito e soffocando le risate se qualcuno aveva un brutto cappello o il caffettano logoro, perché Nnamabia era uscito senza una parola dopo dieci minuti, tornando appena prima che il prete dicesse: «La messa è finita, andate in pace». Ero un po’ infastidita. Immaginavo che fosse andato a fumare o a incontrare una ragazza, visto che per una volta aveva la macchina tutta per sé, ma almeno avrebbe potuto dirmelo. Eravamo tornati a casa in silenzio e, dopo che ebbe parcheggiato nel nostro lungo vialetto, ero scesa a raccogliere dei fiori di ixora mentre lui apriva il portone. Entrando, lo avevo trovato impietrito in mezzo al salotto.
– Ci hanno derubato! – aveva detto in inglese.
Mi ci era voluto un po’ per capire, per mettere a fuoco la stanza tutta in disordine. Ma perfino allora avevo pensato che ci fosse qualcosa di teatrale nel modo in cui i cassetti erano stati spalancati, come a voler fare colpo sugli scopritori. O forse era solo che conoscevo bene mio fratello. Piú tardi, quando i miei genitori sono tornati a casa e i vicini hanno cominciato ad arrivare a frotte per dirci ndo, schioccando le dita e alzando e abbassando le spalle, seduta da sola nella mia stanza al primo piano mi sono resa conto del perché avevo lo stomaco in subbuglio: era stato Nnamabia e lo sapevo. Lo sapeva anche mio padre. Ha fatto notare che le persiane erano state aperte dall’interno anziché dall’esterno (Nnamabia era in realtà ben piú furbo, ma forse aveva avuto troppa fretta di tornare in chiesa prima della fine della messa) e che il ladro sapeva esattamente dove mia madre teneva i gioielli, nell’angolo sinistro del baule di metallo. Nnamabia ha lanciato a mio padre un melodrammatico sguardo ferito dicendo: – So che in passato vi ho procurato molto dolore, ma non potrei mai abusare della vostra fiducia in questo modo –. Lo ha detto in inglese, usando paroloni inutili quali «procurato» e «abusare», come faceva sempre quando doveva difendersi. Poi è uscito dalla porta sul retro e quella notte non è tornato a casa. E nemmeno la notte dopo. O quella successiva. È tornato dopo due settimane macilento e piangente; puzzava di birra e diceva che gli dispiaceva, che aveva dato in pegno i gioielli ai mercanti hausa di Enugu e che i soldi erano spariti.
– Quanto ti hanno dato per il mio oro? – gli ha chiesto mia madre. E quando lui gliel’ha detto, si è portata le mani alla testa gridando: – Oh! Oh! Chi m egbuo m! Il mio Dio mi ha ucciso! – Era come se pensasse che perlomeno avrebbe dovuto ricavarne una bella somma. Avrei voluto prenderla a schiaffi. Mio padre ha chiesto a Nnamabia di scrivere una relazione: su come si era venduto i gioielli, su come e con chi aveva speso il denaro. Non credevo che Nnamabia avrebbe detto la verità, e non credo neppure che mio padre se lo aspettasse, ma a lui, al mio padre professore, piacevano le relazioni, piacevano le cose messe nero su bianco e documentate. Oltretutto Nnamabia aveva diciassette anni e una barbetta ben curata. Stava in quella terra di nessuno fra le superiori e l’università ed era ormai troppo grande per le punizioni corporali. Che altro avrebbe potuto fare mio padre? Quando Nnamabia ha finito, mio padre ha archiviato la relazione nel cassetto d’acciaio del suo studio dove conservava tutti i nostri documenti scolastici.
– Come ha potuto ferire cosí sua madre! – ha concluso, bofonchiando.
Nnamabia, in realtà, non lo aveva fatto per ferire lei, ma solo perché i gioielli di mia madre erano l’unica cosa di valore che avessimo: monili di oro massiccio raccolti in una vita. Lo aveva fatto, anche, perché lo facevano altri figli di professori. Nel nostro tranquillo campus a Nsukka era la stagione dei furti. Ragazzi cresciuti guardando i Muppet, leggendo Enid Blyton, mangiando cereali a colazione, andando alla scuola elementare per i figli dei docenti con i sandaletti marroni ben lucidati, ora tagliavano le zanzariere alle finestre dei vicini, forzavano persiane in vetro e si intrufolavano per rubare televisori e videoregistratori. Sapevamo chi era stato. Il campus a Nsukka era un mondo cosí piccolo – con le case affiancate lungo i vialetti alberati, divise solo da basse siepi – che era impossibile non sapere chi fossero i topi d’appartamento. Eppure, quando i genitori professori si incontravano al circolo o in chiesa o ai consigli di facoltà, continuavano a lamentarsi della marmaglia di città che veniva a rubare nel loro sacro campus.
I ragazzi che rubavano erano i piú popolari. La sera guidavano le auto dei genitori, coi sedili tirati indietro e le braccia tese per raggiungere il volante. Osita, il vicino che si era portato via il nostro televisore solo qualche settimana prima dell’episodio di Nnamabia, era bello e flessuoso alla sua maniera imbronciata e camminava con una grazia da gatto. Aveva la camicia sempre perfettamente stirata; io avevo l’abitudine di guardare oltre la siepe e, quando lo vedevo, chiudevo gli occhi e immaginavo che mi venisse incontro per dirmi che ero sua. Ma lui non si è mai accorto di me. Quando ci ha rubato in casa, i miei genitori non sono andati dal professor Ebube per chiedergli che il figlio ci restituisse le cose. Hanno detto pubblicamente che erano stati dei teppisti di città. Ma sapevano che era stato Osita. Osita aveva due anni piú di Nnamabia; molti dei topi d’appartamento erano un po’ piú grandi di Nnamabia e forse era per questo che Nnamabia non aveva rubato a casa d’altri. Magari pensava di non avere ancora l’età, o i requisiti, per un furto piú grande dei gioielli della mamma.

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Lara
Recensioni: 3/5

“Quella cosa intorno al collo” è una raccolta di dodici racconti ambientati in Nigeria o negli Stati Uniti , racconti nei quali le protagoniste si trovano a dover prendere delle decisioni, riprendere in mano le loro vite, affrontandole e spesso decidendo di andarsene, senza voltarsi in dietro. Donne forti, che si trovano a vivere spesso in una condizione di doppia identità, oscillando tra due culture, spesso privilegiandone una, in cui la nostalgia diventa un sentimento quotidiano.

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Mara
Recensioni: 5/5

Si tratta della prima raccolta di racconti di Chimamanda Ngozi Adichie. All'interno dei dodici racconti si ritrovano tematiche care all'autrice nigeriana e già esplorate nei suoi romanzi: il ruolo della donna all'interno del matrimonio, cosa significa essere africani per gli africani in contrapposizione ad un'idea occidentale di Africa, il prezzo del colonialismo, l'idea di un sogno americano spesso amaro e deludente. La scrittura della Adichie è straordinaria: crea in poche pagine personaggi complessi e interessanti, tanto che ognuno potrebbe essere il protagonista di un intero romanzo.

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Naty
Recensioni: 4/5

Questo era l’ultimo lavoro di Chimamanda Ngozie Adichie che mi restava da leggere e, nonostante non ami molto la forma del racconto, l’ho trovato molto bello. Come sempre nelle raccolte di racconti, ce ne sono alcuni più riusciti di altri, ma in tutti si riconosce la penna della Adichie. I temi sono quelli soliti dell’autrice, il femminismo, i problemi della sua Nigeria, le difficoltà di integrazione sociale, la religione e la disillusione verso un mondo occidentale diverso da come se lo aspetta chi decide di emigrare. In tutti, il filo conduttore sembra essere quel senso perenne di smarrimento che tanto bene verrà poi approfondito in “Americanah", il mio preferito.

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Chimamanda Ngozi Adichie

1977, Abba

Chimamanda Ngozi Adichie è nata ad Abba, in Nigeria, nel 1977 ed è cresciuta nella città universitaria di Nsukka. Là ha completato il primo ciclo di studi, poi proseguiti negli Stati Uniti.Già vincitrice di importanti premi con L'ibisco viola e Metà di un sole giallo (il Commonwealth Writers' Prize for Best First Book 2005, il primo, e l'Orange Broadband Prize 2007 e il Premio internazionale Nonino 2009, il secondo), entrambi pubblicati da Einaudi, con Americanah, il suo terzo romanzo, ha conquistato la critica aggiudicandosi il National Book Critics Circle Award 2013 e giungendo tra le finaliste del Baileys Women's Prize for Fiction 2014. Nel 2017 ha pubblicato, sempre per Einaudi, Cara Ijeawele, e nel 2009 una raccolta di racconti, The Thing Around...

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