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Quello che l'acqua nasconde
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Quello che l'acqua nasconde - Alessandro Perissinotto - copertina
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Quello che l'acqua nasconde

Descrizione


Un uomo sfuggente e complesso che ha molto da nascondere e troppo da dimenticare. Un passato rimosso che torna prepotentemente a galla, perché l'acqua non può celarlo per sempre. Un mondo scabroso e disturbante, perché gli anni '70 non hanno ancora finito di rivelare i loro errori.
Edoardo Rubessi è un genetista di fama mondiale, un probabile premio Nobel. Quando, dopo trentacinque anni trascorsi negli Stati Uniti, torna nella sua Torino, tutti lo accolgono come colui che ha il potere di cambiare il destino dei bambini malati: tutti tranne il vecchio. Il vecchio è un uomo venuto dal passato, da quegli anni di piombo che Edoardo credeva di aver lasciato dietro la porta chiusa di una vita precedente. Ma basta una minuscola fenditura nel legno di quella porta perché il dolore e i misteri imprigionati per decenni escano in un soffio violento che investe Edoardo, e che fa vacillare la fiducia che sua moglie, Susan, ha sempre avuto in lui. E sarebbe bello poter liquidare il vecchio con una battuta, dire che è solo un mitomane, ma Susan non ci casca: il vecchio ha lo sguardo di chi sa farsi ubbidire, lo sguardo di un Lagerkommandant, e Susan quel lager domestico, quell'orrore alle porte di casa dovrà esplorarlo mattone per mattone prima di scoprire chi è veramente suo marito. Dopo Le colpe dei padri, Perissinotto torna a proporci un nuovo viaggio tra le rovine del nostro passato recente, a farci esplorare le memorie rimosse: perché i lager non si sono chiusi nel 1945 e il crudele gioco di vittime e torturatori è continuato a lungo, troppo a lungo.
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Dettagli

2017
7 febbraio 2017
300 p., Rilegato
9788856658057
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Indice

Le prime pagine del romanzo

C’è un’immagine che affiora con una certa regolarità tra i ricordi della mia adolescenza. È quella di un uomo, o, per meglio dire, di una forma umana completamente carbonizzata, seduta su una sedia sotto i portici di via Po, nel centro di Torino. La televisione, che negli anni ha ridotto il proprio senso del pudore a un’ipocrita avvertenza destinata alle persone “facilmente impressionabili”, ci ha offerto, specie con le serie poliziesche americane, una certa familiarità con la morte più orrenda. Centinaia di cadaveri sono sfilati, attraverso lo schermo, davanti ai nostri occhi; corpi mutilati, mummificati, ridotti a scheletro o, appunto, carbonizzati. Ma a rendere l’immagine della mia memoria infinitamente più atroce di qualsiasi trasmissione televisiva sono tre particolari. Il primo, il più ovvio, è che nella fotografia scattata in via Po non ci sono simulazioni né effetti speciali: è tutto orrendamente vero. Il secondo è dato dall’anomala disposizione del corpo. Quel residuo di pietà che ancora è sfuggito agli eccessi della Reality TV vuole che i corpi delle vittime degli incendi ci vengano presentati in posizione distesa, occultati da un sudario che qualcuno cinicamente solleva per offrire allo spettatore la giusta dose di ribrezzo; il corpo di via Po è invece seduto e assomiglia, nella posa, a una statua in bronzo, o in ferro brunito: una riproduzione a grandezza naturale, qualcosa come L’uomo stanco sulla sedia. Il terzo e più raccapricciante particolare consiste infine nel fatto che quella figura umana, così nera che pare ancora fumare e odorare di bruciato anche in fotografia, non è un cadavere: l’uomo carbonizzato sulla sedia è ancora vivo e cosciente. Lo hanno appena “spento”, forse con un soprabito, forse con dell’acqua, e sta aspettando l’ambulanza. Ogni volta che l’immagine mi si affaccia alla mente, mi chiedo quanto dolore possa aver provato in quei momenti eterni: non sono mai riuscito a darmi una risposta.
Credo di non essere il solo a pormi quella domanda, perché la fotografia di Roberto Crescenzio bruciato vivo ha un posto d’onore (e d’orrore) nei ricordi di quanti nel 1977 avevano più di quattordici anni: io ne avevo quattordici esatti.
In fondo, per essere tutta di pietra e mattoni, Torino ha impresso fin troppo spesso le sue memorie con il fuoco. Ci sono città, come Londra ad esempio, che sono state distrutte, spazzate via da incendi giganteschi, da avvisaglie d’inferno; Torino no, a Torino il fuoco ha disdegnato l’ecatombe e si è contentato di ferire la città, talvolta graffiandola, talvolta sfregiandola per sempre. Brucia il Teatro Regio e i torinesi attendono quasi quarant’anni per ricostruirlo. Brucia la cappella della Sindone, e i vigili del fuoco salvano la reliquia, a rischio della loro stessa vita, ma senza perdite. E senza vittime è anche l’incendio del cinema Corso, la più bella sala della città: l’unica volta che mio padre mi ci portò, a vedere L’ala o la coscia con Louis De Funès e Coluche, pretese che mi vestissi a festa. Il Corso bruciò qualche tempo dopo, silenziosamente, durante la notte: di danni quel tanto che bastava per decretarne la chiusura e il cambio di destinazione, per trasformarlo in una buona opportunità immobiliare.
Questi i graffi. Lo sfregio, la ferita profonda, arriva nel 1983 con un altro cinema, lo Statuto. E lì non è questione di poltrone bruciate o di galleria inagibile, lì è questione di sessantaquattro morti, asfissiati mentre cercavano di aprire le uscite di sicurezza bloccate. Nei giorni successivi alla disgrazia, gira voce che a innescare l’incendio siano stati dei petardi; è un’ipotesi plausibile visto che siamo in pieno carnevale. Carnevale, divertimento, allegria. Allo Statuto, quel giorno, davano un film comico: La capra, con Gérard Depardieu. Nella bacheca esterna, l’affiche, sempre più stinta e accartocciata, è rimasta dieci o quindici anni, fino a quando hanno demolito il cinema per farci un condominio. Anche dello Statuto resta nella memoria dei torinesi una fotografia, quella dei morti allineati sul marciapiede bagnato: una lunga fila di lenzuoli bianchi.
Quei sessantaquattro cadaveri distesi, scelti dal caso in una domenica di carnevale, cambieranno per sempre la città, così come cinque anni prima, l’aveva cambiata, per caso, la morte di Roberto Crescenzio. Sì, perché alla fine muore, dopo giorni di agonia, a ventidue anni.
C’è nella morte casuale, nella beffa del destino, un di più di tragedia. Il trovarsi, come si dice, nel posto sbagliato al momento sbagliato, accresce, in chi resta, il senso di ingiustizia, come se, altrimenti, la morte avesse anche un lato giusto, ragionevole, domestico.
Roberto Crescenzio non frequenta abitualmente l’Angelo Azzurro, non ne ha il tempo; lui, figlio di un imbianchino e di una casalinga, deve lavorare e studiare, non si occupa di politica. È un caso se quel giorno, di sabato, è entrato in quel bar con un amico. Forse non sa nemmeno che l’Angelo Azzurro, secondo “i rossi”, è “un covo di fasci”, altrimenti si guarderebbe bene dall’entrare lì dentro proprio mentre fuori, in via Po, sta per arrivare una manifestazione. Quando dentro al bar cominciano a piovere le molotov, lui scappa in bagno, ma poi ha paura che le fiamme lo raggiungano anche lì. Roberto attraversa il rogo e prende fuoco, diventa una torcia. Poi qualcuno lo spegne o lo siede sulla sedia e, mentre assume quella posa da statua o da manichino abbandonato, la sua immagine diventa la cattiva coscienza della sinistra cittadina. No, non solo di Lotta Continua, del circolo Barabba, degli “estremisti”, ma di tutti noi che, a quel tempo, trovavamo naturale dividere il mondo in due.
Ricordo che una volta, a scuola, io e altri due avanzi di parrocchia come me eravamo riusciti a conquistarci uno spazio nel quarto d’ora di “animazione politica” che, dopo mesi di ridicole lotte, ci era stato concesso ogni mattina prima dell’inizio delle lezioni. Tra i fischi dei compagni di classe, avevamo letto un passo del vangelo secondo Matteo. Al Getsemani, Gesù intima a uno dei suoi, che ha appena mozzato l’orecchio di un servo del gran sacerdote, di rinfoderare la spada e lo accusa di non aver capito nulla del suo messaggio di pace. Era la solita tirata sulla non-violenza, fatta di vomitevoli luoghi comuni, ma all’epoca ci pareva di compiere, con quelle omelie d’accatto, il nostro dovere di guide verso il Bene.
Il giorno dopo la nostra esibizione di giovani preti laici (confesso con vergogna di aver accarezzato più volte, in quegli anni, l’idea del seminario), i nostri compagni di destra (tutt’altro che una sparuta minoranza) appiccicarono sulla lavagna la foto di Roberto Crescenzio e, con il gesso, scrissero È QUESTA LA NON-VIOLENZA DELLA SINISTRA. Noi non replicammo. Avremmo potuto dire che quell’immagine, invece di confutarle, sosteneva le nostre tesi. Avremmo potuto ribadire che noi eravamo cattolici di sinistra, ma soprattutto cattolici. E invece tacemmo, schiacciati dal peso di ciò che non avevamo fatto, dal rimorso di aver pensato, almeno una volta, che l’Angelo Azzurro fosse un covo di fasci. Da allora, non prendemmo mai più la parola nel quarto d’ora di “animazione politica” e io, forse salvandomi da un destino in clergyman, persi il gusto per le prediche.
Ma non fu quella l’unica occasione in cui la foto tornò a dare piccoli o grandi colpi di timone alla mia vita e a quella di chi mi stava vicino. A immergermi di nuovo in quel passato è stato, in tempi recentissimi, un libro. Il suo titolo è un manifesto: Fate la storia senza di me. Ma, più che il titolo, è importante l’autore: Albertino Bonvicini. Un nome che, a Torino, è ancora capace di suscitare ricordi. Un nome legato a quello di Roberto Crescenzio e all’Angelo Azzurro. Quel libro era tra le cose del mio amico Edoardo Rubessi. E non era lì per caso, perché un libro non è mai un oggetto innocuo.

Valutazioni e recensioni

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mara
Recensioni: 3/5

Lo stesso Perissinotto, nell'introduzione a questo romanzo, ammette che si tratta dell'ennesima storia sugli anni di piombo, tematica già presente in altre sue opere. In questo caso, la vicenda è raccontata in modo completamente diverso. Un genetico di fama internazionale torna a Torino dall'America e si rende conto che le ferite del suo passato non sono del tutto rimarginate. A quel punto, comincia una ricerca da parte della moglie stessa che non sa nulla del suo passato, che li porta a fare i conti con l'uomo di ieri, la storia dei suoi genitori che non ci sono più, ma anche con la sua storia di bambino rinchiuso in orfanotrofio. La moglie, ignara di tutto, deve pian piano mettere insieme tutti i tasselli e provare a costruire insieme l'immagine di un uomo diverso da quello che ha sempre creduto fosse perché le cose non dette pesano più di tutto il resto. Edoardo, il protagonista, è uno straniero, non solo agli altri, ma anche soprattutto a se stesso. Perissinotto costruisce la storia difficile di un uomo tormentato che, alla fine, riesce a ritrovarsi e a continuare il suo percorso.

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andrea
Recensioni: 3/5

Primo libro di Perissinotto che leggo e devo dire che mi ha sorpreso positivamente, trama interessante e scritto veramente bene. Ma il finale incompiuto mi ha lasciato un po' di amaro in bocca. Più che sufficiente comunque il voto,consigliato e da consigliare.

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Andrea
Recensioni: 5/5

Perissinotto è uno dei miei autori preferiti e non mi ha quasi mai deluso. Ogni volta che leggo un suo romanzo vengo a scoprire cose e aspetti che non conoscevo minimamente e i suoi libri, oltre che piacevoli come scrittura (tranne certi punti un po'più pesanti/noiosi), sono anche per una crescita personale e di sapere. Super consigliato come libro e come autore. Se leggete la critica e gli approfondimenti del libro su ibs vi farete già una bella idea dell'insieme del libro. Ps a volte l'uomo dimentica per non ricordare, per cercare di mascherare, nascondere o addirittura cancellare ciò che è stato...

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Voce della critica

Torino è una città dai mille volti. Quando leggo un libro ambientato a Torino scopro sempre qualcosa che non so su questa città dall’apparenza perfetta ma dai vicoli fallaci, dalle belle facciate che nascondono passati sporchi e odierni rancori. Come tutte le città, obietterete. Sicuramente, ma non tutte hanno il fascino di Torino. Nel nuovo romanzo di Alessandro Perissinotto Quello che l’acqua nasconde il passaggio dal bianco al nero, dal pulito allo sporco, dal bellissimo all’orrido, con rare concessioni a vie di mezzo e luoghi neutri, è sicuramente uno degli aspetti che mi hanno più intrigato. Perché questo manicheismo di fondo appartiene non solo alla città ma anche ai personaggi, ciascuno a modo suo è un Giano bifronte capace di tutto e niente.

Andiamo per ordine, ma con difficoltà – lo ammetto – perché il libro è pieno di spunti e argomenti. E di novità rispetto ai precedenti romanzi di Perissinotto, che ho molto apprezzato (Le colpe dei padri va letto assolutamente).

La storia affonda le radici nel passato e nel torbido: se nell’incipit forte e accattivante riecheggia qualcosa di Pastorale Americana, non stupitevi, scoprirete più avanti il perché. C’è un incontro, un passato che si ripropone e una crisi immediata che porta i destini di tre personaggi a intrecciarsi. L’obiettivo è quello di far luce sul passato e al tempo stesso di oscurarlo, dimenticarlo: la memoria che lotta contro se stessa perché ricordare è doloroso, eppure è l’unico modo per affrontare il presente.

Edoardo Rubessi, eminente scienziato tornato in Italia dall’America per un’importante ricerca, convinto che il passato sepolto dagli anni sia ormai morto, cerca nascondere alla compagna, Susan, i segni di questo cadavere che, invece, vuole emergere. Lei, d’altro canto, è seriamente intenzionata ad andare a fondo, per capire chi sia veramente l’uomo che ha accanto e perché mente sulla sua giovinezza. Il terzo personaggio è il narratore, vecchio conoscente dello scienziato, amico di un’adolescenza lontana e mal vissuta, che porta la donna in giro per Torino, alla scoperta della città sulle tracce dell’uomo. Una specie di via crucis, con tappe dolorose per la storia d’Italia e deli personaggi.

Perché, come sempre nei libri di Perissinotto, la storia del singolo è legata a quella più grande, che lo sovrasta e lo ingloba nei corsi e ricorsi. Il narratore, professore di scienze alle superiori, si trova di fronte a una classe sgomenta e ignorante, a spiegare il terrorismo che spezzo l’Italia negli anni ’70 e a subire, come uno schiaffo in faccia, il totale disinteresse dei suoi allievo. Lui e la donna rivivono le atrocità commesse nei manicomi, luoghi in cui l’umanità vacillava e si rintanava in anfratti sporchi di urina e denti spezzati. Il dottore fa i conti con il passato (che nasconde un segreto), atroce quanto la consapevolezza che tutta la sua scienza non è in grado di curare le malattie e arrestare la morte.

Perissinotto affronta, con il ritmo e la struttura di un thriller davvero ben costruito, il tema dell’Uomo: la storia diventa un pretesto per ricordarci quanto l’Uomo possa essere crudele, vendicativo, stupido e bugiardo, quanta paura abbia di se stesso e delle proprie scelte, che neanche a distanza di anni è in grado di affrontare. E quest’Uomo, nella sua Storia, si muove su un palcoscenico perfetto, una Torino che nasconde e poi svela, a tratti monumentale e subito dopo decadente, capace di raccontare una storia terribile per poi richiuderla, velocemente, in un cassetto.

“Uno di quei momento in cui, stranamente, stare in equilibrio sul filo risulta molto più facile che cadere giù; e si rimane, per non rovinare nulla, per avere una cosa in più da rimpiangere tutta la vita.”

Recensione di Beatrice De Carli

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Alessandro Perissinotto

1964, Torino

Alessandro Perissinotto nasce a Torino nel 1964. Pratica vari mestieri e, intanto, si laurea in Lettere nel 1992 con un tesi in semiotica. Inizia quindi un’intensa attività di ricerca, occupandosi di semiologia della fiaba, di multimedialità e di didattica della letteratura. È docente nell'Università di Torino.Collabora inoltre con il quotidiano "La Stampa", per il quale scrive articoli e racconti che appaiono sul supplemento "TorinoSette", e con "Il Mattino" di Napoli. Approda alla narrativa nel 1997 con il romanzo poliziesco L’anno che uccisero Rosetta (Sellerio), al quale fanno seguito La canzone di Colombano e Treno 8017 (Sellerio, 2000 e 2003). Nel 2004 pubblica per Rizzoli il noir epistolare Al mio giudice (Premio Grinzane Cavour 2005 per la Narrativa...

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