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Disoccupazione e allucinazione nella Spagna precaria e impoverita. Ma se ne può uscire. Basta avere spirito d''intraperdenza'.
Di Quello che mi sta succedendo, ambiziosa prova “lunga” del fumettista spagnolo Miguel Brieva, si è già molto parlato, anche qui in Italia. Per cominciare, vista la provenienza sia geografica che politico-culturale del suo autore, il fumetto è stato da più parti percepito come una specie di manifesto del dopo Indignados, cosa che in effetti è, almeno in parte (ma su questo ci torniamo poi). E va bene, ridurre opere narrative di una certa complessità a formule tanto semplicistiche e vaghe, è sempre impresa rischiosa e, perché no, disonesta; ma un volta chiuso il volume, è difficile non cadere nella tentazione di rispolverare espressioni cadute in disgrazia tipo “opera militante”. Che è pur sempre un'espressione con una sua nobiltà, almeno credo io.
In una recente intervista concessa ad Alias, Brieva avvertiva che da qui in poi “iruolo del fumetto dovrà essere quello di qualsiasi altro mezzo: cambiare il nostro immaginario, perché diversamente da quanto accade oggi, si passi a considerare prima la distruzione del capitalismo, che quella del nostro mondo”. Parole che ribaltano l'antico adagio di Fredric Jameson “è più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo”e che piacerebbero a tipi come Alex Williams e Nick Srnicek, che trovate intervistati in altra parte del giornale. Ma in cosa, esattamente, Quello che mi sta succedendo è un'opera “militante”?Protagonista del libro è Victor Menta, un trentaduenne laureato in geologia che, dopo la consueta pletora di lavoretti squallidi e mal pagati, si ritrova disoccupato a seguito della crisi del 2008. Passa le sue giornate ai giardini pubblici assieme a un gruppo di amici autoribattezatisi “gli intraperdenti” (non è un refuso), ogni tanto segue qualche corso di aggiornamento, finisce anche lui nell'onnipresente call center, lavora come addetto alle pulizie all'aeroporto... Per farla breve, le sue giornate sono scandite da curriculum che diventano ridiculum, tante canne, tanta noia, tanta depressione. Ma soprattutto: tante allucinazioni.
Ecco, le allucinazioni di Victor sono il vero perno di Quello che mi sta succedendo: perseguitano il protagonista precipitandolo in una specie di dimensione parallela che, pagina dopo pagina, si fa sempre più claustrofobica e delirante, e certo non per caso hanno spesso a che fare con le suggestioni, le lusinghe, e in buona misura gli inganni della società dell'informazione, che tutto permea e tutto confonde. Ci sono personaggi presi dalla televisione e dalla pubblicità, esseri antropomorfi “pelosetti e adorabili”, ma anche portasaponi che discettano di economia e finanza, nonché atlete di nuoto sincronizzato che con le loro acrobazie dettano l'agenda di governo e parlamento.
Senza svelare troppo della trama, posso dirvi che queste allucinazioni così invadenti e vieppiù farneticanti, si riveleranno per Victor non il segnale di un'irrecuperabile instabilità mentale, ma lo strumento attraverso il quale lui e i suoi amici intraperdenti riusciranno a... be', a cambiare il mondo, diciamo.
Ma qui siamo già nella seconda parte del libro, quella che più echeggia i fatti o se non altro le atmosfere del Movimiento 15-M. È anche la parte in cui Brieva più sfiora una certa enfasi retorica che è il perenne rischio di opere del genere, ma che tutto sommato viene tenuta a bada sia dal tono allucinato delle tavole (che fanno pensare al Terry Gilliam più de L'esercito delle 12 scimmie che di Brazil) sia da un tratto memore della grande lezione underground di Robert Crumb, autore a cui Brieva è stato giustamente accostato.
Personalmente, però, è la prima parte del libro quella che trovo più interessante. Perché traduce in maniera angosciante (e per questo efficace) tutto il senso di vuoto, spaesamento e vera e propria nullità di quella generazione che il dogma dell'individuo-imprenditore-di-sé-stesso ha infine relegato in un limbo sospeso tra precariato perenne (lavorativo, affettivo, biografico) e marginalità imposta (politica, economica, perché no esistenziale). Nelle sue pagine migliori, Quello che mi sta succedendo è quasi un piccolo trattato su come la depressione sia diventata, per dirla col Bifo di Heroes, la malattia tipica di un'era di competizione e iperconnettività. “Non c'è niente di meglio che salire su un bel cumulo di rifiuti per osservare meglio il mondo”, si legge in una delle tavole: tanto più se è il mondo intero ad assomigliare a una discarica immensa popolata da rottami e materiali di scarto, insomma da pezzi di vita.
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