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Questioni di vita. Etica, scienza e salute - Giovanni Berlinguer - copertina
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Dettagli

1991
1 gennaio 1997
XVI-255 p.
9788806121723

Voce della critica


recensione di Vineis, P., L'Indice 1991, n. 8

Come ricorda ampiamente Berlinguer, non fa ancora parte della formazione dei medici italiani una discussione aperta sulle implicazioni etiche del loro lavoro. Nei corsi universitari viene trasmesso un numero limitato di nozioni sull'argomento, per lo più in un contesto medico legale (riguardante cioè le responsabilità civili e penali). Mi è capitato recentemente di sollevare alcune banali questioni di etica con i partecipanti ad un corso di specializzazione in medicina interna, dunque colleghi già laureati e per la maggior parte già inseriti in strutture ospedaliere; con mio stupore, buona parte di questi medici non riteneva particolarmente utile aprire una discussione pubblica sulla problematicità di alcuni atti medici. La loro opinione era che si tratti di una questione privata, del singolo medico, da risolversi nel chiuso della sua coscienza.
Una parte di questi medici operava in un ospedale dove viene offerto al pubblico un gran numero di test per la presunta diagnosi precoce di vari tipi di tumori. Per molti di questi test (volti per esempio a diagnosticare precocemente un tumore della prostata, o del polmone, o dell'ovaio) non vi è al momento alcuna prova di reale efficacia. Ma la mancanza di un'efficacia dimostrata ha ovvi risvolti etici. Provo ad elencarne solo qualcuno: per restare alla tradizionale terminologia dell'etica al letto del paziente, non si rispetta certo l'"autonomia decisionale" del paziente quando gli si propone un intervento di cui non si prevede esattamente l'esito e di cui pertanto, 'a fortiori', non si è in grado di spiegare l'utilità. Oppure: non si può non porsi il problema dell'accessibilità al servizio, e dunque il problema della sua pianificazione, se non a rischio di violare un altro importante principio, quello dell'"uguaglianza di accesso". Nel caso poi dello screening per i tumori vi sono problemi etici addizionali: a differenza degli interventi medici in cui "si presta un soccorso" su precisa richiesta, nello screening si promette un beneficio probabile (ma mai certo al livello individuale) ad una persona fino a quel momento ritenuta sana. Dunque, lungi dal non costituire oggetto di possibili considerazioni etiche, le attività professionali dei miei colleghi erano gravide di importanti e poco discusse implicazioni. Vi è un nesso profondo tra aspetti tecnici (dimostrazione di efficacia delle pratiche sanitarie) e aspetti etico-politici.
Uno dei grandi pregi del libro di Giovanni Berlinguer è proprio il continuo riferimento ad entrambi questi piani, come peraltro in altri testi dello stesso autore. Per questo il libro è da consigliare ai giovani medici e agli studenti. Come fa notare Berlinguer, secondo una ricerca americana condotta tra gli studenti di medicina, nel passaggio dal primo al sesto anno si verificava un'attenuazione dello spirito umanitario e un incremento del cinismo. Se fosse più chiaro al medico che una pratica di efficacia non dimostrata è anche una pratica eticamente non accettabile, verrebbe incrementato l'atteggiamento critico verso la routine quotidiana e verso l'introduzione di nuove attività potenzialmente invasive come gli screening di massa. Un altro merito del libro è quello di ricordare che la bioetica non è solo e necessariamente una disciplina "di frontiera", non si applica cioè solamente a casi estremi dovuti allo sviluppo delle tecnologie biomediche, come la fecondazione artificiale. In termini quantitativi (considerando il numero delle persone coinvolte), sono certamente e di gran lunga più importanti i "problemi quotidiani", come i maltrattamenti subiti dai pazienti, le sperimentazioni incontrollate, la diffusione con criteri consumistici dell'uso di taluni farmaci. Inoltre è ovvio che in un sistema sanitario in cui non venga adottato un rispetto sistematico dei diritti dei pazienti è improprio introdurre pratiche tecnologiche i cui presupposti etici sono ad un livello di ordine superiore in termini di complessità concettuale; esattamente come è improprio introdurre il trapianto del fegato in un ospedale in cui i pazienti attendono due anni per un'operazione di prostata. Un altro problema sollevato dal libro è il divario tra il numero di nuovi diritti riconosciuti ai vari soggetti sociali (e da questi rivendicati) e la concreta messa in pratica di azioni volte a garantirli. Questa considerazione, già fatta da Norberto Bobbio (per esempio in "L'età dei diritti"), è cruciale per la medicina, dove i soggetti coinvolti sono spesso in condizioni di debolezza e di soggezione.
Il libro affronta poi temi più ampi, inclusa la responsabilità nei confronti della natura e delle generazioni future. Su questi temi vorrei esprimere due considerazioni stimolate dal libro, ma che meriterebbero di essere espanse. La prima si riferisce ai diritti degli animali o della natura. A me pare che il concetto di diritto sottintenda la capacità di esprimere una rivendicazione: il diritto è qualcosa che viene espresso, rivendicato, difeso da chi ne è portatore, altrimenti non si tratta che di un'immagine in negativo del dovere. Ma allora non ha alcun senso parlare di diritti degli animali o della natura, che sono entità ovviamente incapaci di esprimere qualunque rivendicazione. Quando si parla di "diritto" di queste entità bisognerebbe chiarire che ci si riferisce in realtà ai nostri doveri nei loro confronti. Il problema è tutt'altro che ozioso e semantico. Il parlare solamente di diritti (e anzi universalizzare alcuni di questi, come il diritto alla proprietà) è stato tipico delle democrazie nate dalla rivoluzione francese. Ma, come si è espressa Simone Weil, il diritto è per definizione sempre relativo e condizionato, espressione di particolarismo; solo il dovere è assoluto e incondizionato. Questa considerazione ha due implicazioni: la contraddizione in cui sono caduti gli illuministi quando parlavano di "diritti universali", e l'inevitabile conflittualità e debolezza intrinseca di un sistema etico interamente ed esclusivamente basato su diritti - e dunque su rivendicazioni - , anziché su doveri. Un tale sistema tenderà a presentarsi, commenta la Weil, come basato su concetti quali "spartizione, scambio, quantità": "ha qualcosa di commerciale. Evoca il processo, l'arringa". Non procedo oltre ma credo che una discussione sul significato, oggi, di termini quali diritto e dovere (verso i pazienti, verso gli animali, verso la natura) non sarebbe inutile. E, ancora una volta, il libro di Berlinguer potrebbe essere, in campo biomedico, un buon punto di partenza.
La seconda considerazione è di ordine biologico: è stato affermato che gli uomini, come "macchine cibernetiche", si sono selezionati nel corso dell'evoluzione per reagire in modo immediato a stimoli di breve o media durata. Le preoccupazioni circa le conseguenze sul lungo periodo, addirittura nell'arco di generazioni, non rientrerebbero nel bagaglio delle reazioni istintuali dell'uomo. Di qui l'importanza che assume la cultura come elaborazione consapevole di un'etica della responsabilità sul lungo periodo; non si può contare su un istinto biologico di conservazione, perché "la selezione promuove ciò che è immediatamente utile, anche se il cambiamento è fatale sul lungo periodo" (Dobzhansky). Una versione pessimista di questa teoria potrebbe sostenere, non senza qualche parte di verità, che l'uomo si è selezionato come un essere massimamente dotato di capacità di trasformazione dell'ambiente, ed ha avuto dunque un considerevole successo evolutivo, ma proprio per aver spinto alle estreme conseguenze tale attitudine è destinato a soccombere. A meno che uno straordinario salto culturale non lo renda capace di includere le conseguenze sul lungo periodo tra le sue reali preoccupazioni.

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