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Il radioso avvenire. Mitologie culturali sovietiche - G. Piero Piretto - copertina
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Descrizione


Il volume ripercorre tappe di storia della cultura sovietica (dal 1917 al 1980), nelle sue manifestazioni "alte" e "basse", indagandone i riscontri cinematografici, iconografici, letterari, musicali e approfondendo momenti che hanno trovato riscontro anche nell'ambito della cultura di consumo, o che hanno prodotto elaborazioni originali nei settori della sub o contro-cultura.
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Dettagli

2001
26 giugno 2001
381 p., ill.
9788806155568

Voce della critica

Di lettura rapida e avvincente, il libro consiste di due parti: dalla Rivoluzione del 1917 al "disgelo" a metà degli anni cinquanta e dal disgelo alla dissoluzione dell'Urss nel 1991. È un libro per tutti, ma grazie alla sua esatta filologia, con apparato di note e ricchissima bibliografia, anche un libro per chi voglia approfondire, e sarebbe un errore rimpiangere che di letteratura si parli solo secondariamente. Il titolo proviene da un verso di Demjan Bednyj del 1937, "e marciammo con Stalin verso il radioso avvenire", ma il sottotitolo è esplicito: si tratta di una ricerca sulla storia della cultura, materia giovane rispetto alla nostra tradizionale "storia della letteratura". Quindi spettacoli, divertimenti, eventi pubblici, il cinema - cui il regime rivolgeva particolare attenzione - e le riviste, prima fra queste la rivista satirica "Krokodil", delle cui illustrazioni (propaganda e vignette) il libro presenta un prezioso stralcio: già nell'evolversi del segno si registra l'evolversi del costume ufficiale.

Due sono le idee portanti del regime, deificare l'uomo, dato che Dio èmorto, e trasformare la natura:ma sono le stesse del capitalismo - salvo che l'Occidente le manovra con scetticismo e con più antica competenza. Il comunismo vi crede interamente, brutalmente. Solo in Russia o dalla Russia verso est può insorgere il fenomeno dei giubilanti eroi del lavoro, dai "lavoratori d'assalto" agli stachanovisti, ed è nella Russia autoritaria e teocratica, che non ha avuto l'Illuminismo, che più facilmente si formano dei culti: i culti di Lenin e di Stalin - vissuti dal popolo come icone del babbo zar, zar batjuška. L'idolatria propria delle culture popolari - e Piretto cita il nostrano padre Pio - sfocia nelle idolatrie della moderna società di massa. E siamo di nuovo a Nietzsche: Piretto parla giustamente di nietzscheanesimo staliniano, che vuol dire culto del sublime, dell'erculeo, della bestia sana e tutta d'un pezzo. Anche qui come nella Germania nazista si tratta del Nietzsche deteriore, o comunque deviato a uso politico. Intanto il regime si espande in verticale, sintetizza Piretto, verso il cielo con quelle architetture che ben conosciamo, e verso il centro del pianeta con lo scavo di canali fra mari e fiumi e della faraonica metropolitana moscovita. Molte di queste imprese andavano tuttavia a pubblico beneficio, e qui Piretto è un po' partigiano: che il regime stesse anche traendo le masse fuori dall'abbandono e dall'analfabetismo del passato zarista non sembra commuoverlo più di tanto.

Ma qui siamo al nocciolo del libro: lo stalinismo visto come gigantesco lunapark e - questo è importante - come luogo virtuale o non-luogo. Le repressioni staliniane della dissidenza intellettuale presentavano sul versante delle masse non dissidenti una faccia buona, ridente e goduriosa: spettacoli teatrali, feste popolari, parchi di "cultura e riposo" attrezzati, parchi a tema, mostre delle conquiste sovietiche, ecc. Un non-luogo, uno Stalinland della felicità dove il cittadino si "riconosce" negli oggetti esposti. Non è con la sorpresa o con il nuovo ma con l'autoriconoscimento che operano queste fantasmagorie istituzionali. Siamo, osserva Piretto, davanti a un'anticipazione di Disneyland(primo Disneyland: Los Angeles, 1955) e si potrebbe aggiungere: anticipazione della nostra cultura televisiva, del trionfo dei comunicatori e del processo d'infantilizzazione della società di massa odierna. Del resto anche il bando dato dal grande comunicatore Stalin al pensiero utopico in quanto sovversivoanticipa, per quanto dovuta ad altre ragioni, la nostra perdita di ogni utopia.

Sostenuto dal suo ministro[Z con pipetta]danov, che stronca tutto ciò che nelle arti ha odore di straniero (cosmopolitismo) e di arte per l'arte (formalismo), fra una purga e l'altra e fra roboanti conquiste tecniche (volo Mosca - San Diego per la rotta polare nel 1937, costruzione, con il lavoro dei deportati, dei canali Volga-Don e Baltico - Mar Bianco e più recenti disastri ecologici come la deviazione degli affluenti del lago Aral), Stalin promuove la commedia musicale e ogni genere di produzione con lieto fine. È un carnevale cui manca, osserva Piretto, ogni riso dissacratorio e liberatorio alla Bachtin, e difatti Bachtin, costante presenza ideale nel libro di Piretto, in Urss rimane chiuso nell'armadio dei veleni fino al 1976.

Ciononostante, non credo che l'era staliniana e il suo postludio si possano iscrivere per intero sotto "mitologie culturali" e "parentesi di retorica vuota", "passioni cieche e irrazionali", come inclina a fare Piretto. Non si spiegherebbero la resistenza russa ai tedeschi, l'assedio di Leningrado, di cui il libro parla diffusamente, e l'assedio di Stalingrado, di cui invece non parla. Qui ci andrei più piano: i candidi russi avevano un potente amor di patria e, se tanti erano i dissidenti nell'intellighenzija, la gente comune credeva sinceramente nella patria sovietica, e su questa fede dopotutto non ci sputerei. Così come la letteratura del realismo socialista, sorto nel 1934, non è tutta da passare sotto silenzio: non sono, credo, da buttare Anton S. Makarenko con il Poema pedagogico e con Bandiere sulle torri, o Come fu temprato l'acciaio di Aleksandr N. Ostrovskij.

La seconda parte del libro non è meno interessante della prima. È storia più recente: dalla fine dei tiranni,[Z con pipetta]danov (1948) e Stalin (1953) e dal famoso romanzo Ottepel' (Disgelo) di Ilja Ehrenburg (1954) arriva fino a noi. L'autore entra nella sua esperienza diretta. Narrando l'occidentalizzazionedella Russia entra anche nel merito di grandi oppositori quali Pasternak e Bulgakov - il volto vero e profondo della Russia, la sua specificità oscurata dalle parate carnevalesche.

Poi siamo a Chruš[c con pipetta]ov, il terzo zar batjuška della Rivoluzione, che nel 1956, al XX Congresso del Pcus, sconfessa Stalin ma nel 1962 - due anni prima di essere spazzato via dal bre[z con pipetta]nevismo - ancora infierisce sulla mostra di pittura astratta al Maneggio di Mosca. Nel 1962 si pubblica Una giornata di Ivan Denisovi[c con pipetta]di Sol[z con pipetta]enycin, ma nel 1976 su un'altra mostra, a[C con pipetta]erjomuški fuori Mosca, piomba la polizia con i bulldozer, e nel 1978 hanno luogo i processi ai dissidenti Sinjavskij e Daniel. In Europa, mi viene da osservare a margine, ci sono rimasti solo i russi a prendere così sul serio la letteratura. In particolare la poesia: nel 1980, al funerale del poeta Vladimir Vysockij partecipano centomila persone.

La cultura, come dice Piretto, è ancora "in tribunale". Però al di là della stretta cerchia dell'intellighenzija, in Russia si sta formando un'opinione pubblica. I nemici del regime - fantascienza, utopia, jazz, letterature straniere, Hemingway, pop art - non si possono più tenere fuori della porta. Nel 1957 il VI Festival internazionale della gioventù a Mosca non solo apre ma spalanca le porte: è l'anno di On the road di Kerouac, è la data di nascita della protesta giovanile e i giovani contestatori russi si dividono in due classi, gli statniki figli della borghesia burocratica benestante, e i bitniki, figli del proletariato. E qui mi ricordo un'ipotesi di George Steiner: c'è un'affinità tra russi e americani che salta via l'Europa, li accomunano i grandi spazi, quelli che danno al romanzo moderno di questi due paesi delle particolari chances. Il road americano ha riscontro nella doròga russa, la strada che libera dalle strettoie della civiltà, che concilia solitudine e intimità con se stessi e senso dell'ignoto e possibile. Il russo, osserva Piretto, non conosce tuttavia la rabbia: ha in qualche modo il culto della sofferenza. Insieme al loro senso comunitario, che Piretto sottolinea, costituisce, credo, la loro forse incancellabile eredità cristiana.

A cavallo degli ancora repressivi anni settanta, mentre nella società sovietica dilaga come in Occidente il qualunquismo, nelle cucine comunitarie delle sovraffollate metropoli sovietiche prospera un'attività letteraria underground. L'underground, il sottosuolo , dopotutto sembra congenito ai russi più della luce del sole. Ma i ribelli vogliono naturalmente venire alla luce: negli anni sono nate una fila d'importanti riviste, nel 1955 l'"Inostrannaja literatura" nel 1957 "Junost'" e "Novyj mir", nel 1960 "Sintaks", fatta da Brodskij, Okud[z con pipetta]ava, Achmadulina, Gorbanevskaja. Un ultimo evento davvero carnevalesco: nel 1980, in occasione delle Olimpiadi, il regime ripulisce Mosca da tutti i[c con pipetta] udakì ossia eccentrici, ubriachi, vagabondi, contestatori, poeti scompagnati, soggetti senza casa. Poi, dopo il 1990, l'occidentalizzazione sarà totale e da allora in avanti ogni dissidenza sarà metabolizzata e digerita dalla società come caso estremo, come spettacolino del giorno. Succede anche da noi.

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