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E’ un libro di notevole rigore morale e di splendida scrittura; vi sono raccolti interventi di quasi un trentennio, e manifestano “l’incapacità, o l’impossibilità, di sentirsi un cittadino del suo paese” (p.V). Garboli attribuisce l’inizio di questo senso di esilio alla primavera del 1978, quando fu sequestrato e assassinato Aldo Moro, fatto che ha il valore di una rivelazione sul paese dove l’autore era nato e cresciuto. Con un distacco raro, Garboli rievoca la meraviglia per lo “spettacolo della festosa vita italiana” (p.IX) negli anni del dopo-Moro, quando si fa sempre più manifesto il “rapporto deformato del cittadino con lo stato” (Ginsborg, citato a p. X). Gli italiani mostrano di “non aver mai smesso di pensare al loro paese come a un paese normale”. Ma come può essere normale un popolo “capace di nascondere sotto i lazzi e le smorfie tanto sangue?” (p.XVIII). L’occhio di Garboli, impietoso ma non spietato, coglie aspetti inquietanti della nostra vita civile e della nostra psicologia sociale: “sembra che l’antifascismo sia diventato una polvere, la forfora che si spazza via dall’abito prima di uscire di casa. Quello che gli si chiede, è di non lasciare traccia” (p.XIX). Ho citato solo dalla prefazione, rivolta “al lettore”, ma ognuno di questi densissimi saggi è da leggere lentamente, per ricavarne spunti di riflessione amari e luminosi.
Mosaico di riflessioni su fatti anche poco noti ai giovani di oggi. Indubbiamente con buoni spunti. Stimolante
Un libro denso di pensiero, una riflessione mai datata o scontata su questo paese e sui suoi deliri, sulle sue pochezze. Un commiato, quasi, di un grande studioso che è stato anche una coscienza critica, disillusa sulla nostra realtà quotidiana, in un paese che dimentica troppo facilmente i lasciti morali scomodi, difficili da etichettare e controllare.
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