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Descrizione


Pipes considera la rivoluzione sia nel senso di una lotta politica e militare per la conquista del potere in Russia, sia come il tentativo di 'rovesciare il mondo'. E sostiene che la Russia sovietica, creata tra il 1917 e il 1920, servirà da modello a tutti i regimi totalitari del secolo, compreso quello nazista.
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Dettagli

1994
3 ottobre 1995
2 voll., 1040 p.
9788804370048

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Umberto Troise
Recensioni: 1/5

Un testo orientato in modo univoco all'interpretazione della Rivoluzione Russa quale prodotto di un'ideologia necessariamente e coerentemente violenta, che ignora completamente il contesto nell'ambito del quale si trovarono ad operare i bolscevichi prima e durante la rivoluzione, viziato quindi da profondo determinismo ideologico rispetto ai fatti politici e sociali.

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Voce della critica

PIPES, RICHARD, The Russian Revolution 1899-1919, Collins Harvill, 1990
PIPES, RICHARD, La Russia. Potere e società dal Medioevo alla dissoluzione dell'ancien régime, Leonardo, 1992
recensione di Flores, M., L'Indice 1992, n. 9
(recensione pubblicata per l'edizione in lingua originale del 1990)

È possibile, dopo il crollo del comunismo, affrontare la rivoluzione russa in termini nuovi, sottratti al peso che l'ideologia ha indubitabilmente esercitato su tutto il dibattito storiografico? L'occasione per discutere questa possibilità è offerta dalla pubblicazione dell'attesa opera di Richard Pipes ("The Russian Revolution 1899-1919"), che sembra compendiare decenni di studi sulla storia russa e sovietica. Di Pipes, appena adesso, è stato tradotto in italiano un lavoro del 1974 ("La Russia") incentrato sul sistema politico tradizionale russo.
La tesi di Pipes è che tra il XII e il XVII secolo si formò in Russia uno "stato patrimoniale", in cui sovranità e proprietà coincidevano largamente. Questa interpretazione, non rimuova, poggia su un'analisi del ruolo e dei comportamenti della monarchia e delle élite aristocratiche, burocratiche e militari e ben illumina non solo le forme del potere ma anche quelle del suo profondo e particolare rapporto con la società contadina, la sua esistenza materiale e la sua mentalità. Particolare attenzione Pipes dedica al formarsi della intelligencija, l'unica opposizione che surrogò la funzione politica avuta in occidente da differenti "gruppi di interesse" (in Russia, diversamente che in Europa, preoccupati più di combattersi l'un altro che di contrastare lo stato).
Il volume sulla rivoluzione, che si vorrebbe presto veder tradotto anch'esso, costituisce senza dubbio un punto fermo della storiografia attuale e può venir considerato il punto d'arrivo di una revisione della classica interpretazione di Carr che gli avvenimenti degli ultimi anni hanno rapidamente trasformato in nuovo senso comune storiografico.
L'originalità di impostazione del lavoro di Pipes consiste essenzialmente nel vedere la rivoluzione come un processo ben anteriore al 1917 e anche al 1905, da comprendersi solo se si pone attenzione al ruolo e allo sviluppo dell'intelligencija. L'analisi dell'ancien régime e della sua lenta e convulsa dissoluzione si fonda su una lettura chiara e convincente delle forze sociali e istituzionali che agitano la scena russa nell'ultimo quarto del secolo XIX. Non è possibile, comunque, sintetizzare in breve un volume di quasi mille pagine, e su un argomento così denso di fatti, significati, interpretazioni divergenti e contrapposte. Mi limiterò, allora, ad affrontare alcuni dei numerosissimi "nodi" storiografici toccati da Pipes, cercando di evidenziare l'approccio che guida e sottende la sua ricostruzione e i suoi giudizi.
Il punto di partenza dell'analisi di Pipes è la convinzione che la rivoluzione, a partire almeno dalla fine del secolo, avesse trovato di fronte a sé una strada sempre più sgombra: non come risultato di condizioni materiali insopportabili, n‚ come effetto necessario di un percorso economico e sociale; ma come conseguenza di un atteggiamento "irreconciliabile" tra il potere monarchico e le altre differenti élite che avrebbero potuto costituire un'alternativa allo zarismo. Questa specie di analisi storico-sociale delle istituzioni pubbliche e delle idee politiche costituisce un filtro di grandissima efficacia nel chiarire la particolarità della storia russa e l'originalità del rapporto potere/società che prese piede - almeno dalla rivolta decabrista del 1825 se non addirittura da Caterina II o Pietro il Grande - in quel vasto e composito paese.
Questo filtro analitico, è bene anticiparlo subito, funziona solo a tratti, soprattutto nella prima parte. Man mano che ci si avvicina al 1917 e poi ancora dal febbraio all'ottobre e ancor più dopo l'instaurazione del potere bolscevico, esso tende a ridursi, sempre più, ad analisi dell'ideologia e dei fini ultimi della dottrina marxista e leninista; lasciando sullo sfondo il carattere storico e le fattezze concrete del potere e dei poteri delle istituzioni e della presenza pubblica di gruppi sociali, élite, masse.
Le modalità con cui erano state analizzate le cinque istituzioni che, attorno allo zar, ne permettevano e legittimavano il dominio autoritario e cioè la burocrazia, la polizia, la gentry, l'esercito e la chiesa ortodossa, sembrano venir meno quando lo scontro sociale si fa più acuto e quando le scelte politiche vengono interamente ricondotte alle posizioni ideologiche. Il ruolo dell'intelligencija e i suoi connotati, pur individuati con acume, vengono esagerati e assolutizzati; impoverendo la propria analisi nel tentativo di farla rientrare nello schema utilizzato da Burke e Cochin per la rivoluzione francese. "Per comprendere il comportamento dell'intelligencija - scrive Pipes spiegando al lettore uno dei leitmotiv della sua interpretazione - è imperativo tenere a mente in ogni istante il suo distacco dalla realtà: mentre i rivoluzionari possono essere spietatamente pragmatici nello sfruttare, per propositi tattici, le lagnanze del popolo, la loro idea di ciò che il popolo desidera è il prodotto di mera astrazione" (p. 131).
Il "desiderio" di potere dell'Intelligencija, che pure esiste e ha fattezze storicamente riconoscibili, tende in Pipes a separarsi dal contesto sociale e culturale da cui è sorto, e a imporsi come legge storica in virtù della sua mera esistenza. Abili tattici nello sfruttare le "lagnanze" del popolo, i socialisti di qualsivoglia tendenza furono succubi del loro diabolico piano di imporre una nuova società per costruire un uomo nuovo. I bolscevichi, in questo, furono più determinati e conseguenti di menscevichi e socialrivoluzionari, alla cui azione prima e dopo il febbraio del 1917 dovettero in gran parte i propri successi.
Della rivoluzione di febbraio Pipes enfatizza l'ammutinamento della guarnigione, quasi a voler esorcizzare nominalisticamente il significato storico di un processo che descrive avversandolo profondamente. Il "revisionismo" dello storico polacco-americano è, infatti più coerente della nuova vulgata postsovietica che vorrebbe celebrare, nel febbraio, la "vera" rivoluzione contrapponendola al "colpo di stato" bolscevico. Per Pipes solo un accordo tra la monarchia e l'intelligencija radicale per un costituzionalismo moderato e a tappe sarebbe stato realisticamente conforme allo storico equilibrio di forze ed élite su cui la Russia moderna si stava costruendo. La spinta radicale, pur motivata dalla sordità di Nicola II a qualsiasi ipotesi di mutamento, avrebbe rotto un equilibrio storico senza rendersi conto che solo l'anarchia, a quel punto, sarebbe stato il terreno del compromesso. La debolezza della Duma, la reticenza del governo provvisorio, l'ambiguità dei cadetti, l'ambizione di Kerenskij, il rozzo coraggio di Kornilov, l'attendismo dei menscevichi, il populismo dei socialisti rivoluzionari non sarebbero stati altro che successive "rivelazioni" di una realtà già contenuta nel febbraio e che avrebbe condotto alla vittoria del gruppo più cinico e risoluto, l'unico che faceva del potere un idolo assoluto e un obiettivo totalizzante.
La ricostruzione di Pipes, pur in un'ottica cosi evidentemente ideologica, e cioè di valutazione storica sulla base dell'ideologia dei protagonisti, è ricca di informazioni e squarci utili a comprendere il mondo del potere e della politica, che è il livello privilegiato della sua analisi. Stupisce, allora, l'incomprensione storica per l'istituto del soviet, ridotto a corpo senza legittimazione, gerarchico e autoritario. Oltre che in un'ostilità preconcetta e psicologica al caotico assemblearismo e alla contraddittoria e violenta democrazia diretta di cui il soviet era espressione, questa incomprensione risiede probabilmente in una concezione della politica di stampo ottocentesco, liberale, in cui sono solo le élite riconosciute e legittimate a godere del potere di costruire alleanze, compromessi, soluzioni. Per comprendere la politica delle masse con i connotati ambigui e sfuggenti con cui essa si impose sulla scena prima, durante e dopo il conflitto mondiale, ci sarebbe bisogno di altri strumenti, pena ridurla a manifestazione - da stigmatizzare o, al contrario, enfatizzare - di ideologia, manipolazione, irrazionalismo, e cioè di una politica "degradata" e non, come è storicamente, nuova e diversa.
Proprio la situazione di anarchia, conflittualità, confusione cui aveva portato la guerra e l'intransigenza dello zar, e cui n‚ le forze liberali n‚ quelle socialiste riuscirono a dar risposta tra il febbraio e l'ottobre, costituì la legittimazione della vittoria bolscevica. L'insistenza di Lenin a "prendere il potere"- per il fine, occorre non dimenticarlo, di una rivoluzione europea - si rivelò l'unica strategia capace di rispondere ad un bisogno sociale e culturale di autorità, un bisogno in cui la Russia tradizionale si intrecciava con quella nuova e dai contorni assolutamente vaghi disegnata (meglio sarebbe dire: sognata?) dai bolscevichi e dagli altri partiti socialisti.
L'idea che ciò che seguì l'ottobre sia stato il necessario compimento e realizzazione di un piano già concepito e di un progetto coerente di costruzione sociale e politica viene smentita dallo stesso succedersi di eventi che Pipes ricostruisce con minuzia per suffragare quel suo insistente pregiudizio. Assolutizzare il ruolo dell'ideologia e farne il perno di un meccanicismo cui nulla sfugge impedisce all'autore di offrire una spiegazione convincente ad alcuni dei suoi stessi interrogativi: innanzitutto perché Lenin, spesso in minoranza, riuscì sempre a imporsi nel partito. Troppe circostanze concorsero a far "vincere" Lenin: la guerra gli alleati, i tedeschi, gli attentati falliti, Trockij, le divisioni tra i bianchi.
Più il caso che la necessità - sembra dire il racconto di Pipes - segn• i primi anni del regime sovietico. Ma la forma che esso acquisì era già tutta presente - questa è l'interpretazione di Pipes - nella genesi del partito bolscevico e nella genetica dell'intelligencija radicale russa. Per fortuna Pipes, sul piano della metodologia storica, è meno coerente di quanto pretenda e lascia trasparire, anche per il post-'17, parte di quella capacità analitica dimostrata per gli inizi del secolo: la capacità di caratterizzare socialmente e culturalmente il mondo del potere e della politica, la sfera pubblica e il suo rapporto con la società.

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