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Il linguaggio non è come “un meccanismo che adempie a uno scopo determinato”. Esso è quello che è: non posso fargli dire più di quanto possa né posso imputargli di non dire ciò che non può. Non vi è nulla con cui il linguaggio debba concordare, come se, per chiamarsi “linguaggio”, debba arrivare a dire qualcosa che lo precede. È il linguaggio, con la sua grammatica, che anticipa ciò che può essere detto. In questo senso, “lo scopo della grammatica è soltanto quello del linguaggio”, così come lo scopo delle regole di un gioco è soltanto quello del gioco. In breve, il linguaggio non può fare altro che “parlare per sé” senza dovere rispondere di altro. Le regole della grammatica non sono state decise e quindi non possono essere revocate. [...] L’arbitrarietà delle regole è il contrario di un’arbitraria ammissibilità delle proposizioni o di una vuota pensabilità del possibile. La loro arbitrarietà è che non c’è nulla che spieghi perché debbano essere così: “dietro la regola non si può penetrare, perché un dietro non esiste”. Noi non sappiamo nemmeno pensare che le regole avrebbero potuto essere altre e questo mostra come effettivamente non possano esserlo. Da esse dipende, una volta per tutte, “che cosa si chiami possibile e che cosa non si chiami così”. I confini del senso e del non senso non possono essere modificati perché non sappiamo nemmeno immaginare in che senso modificarli né il senso che avrebbe tale modifica. Da La fatica di descrivere, capitolo V
Indice: Prefazione di Eva Picardi - Premessa - I. L’immagine: la seduzione di un paradigma: § 1. «L’unico problema grande» - § 2. Il fatto dell’immagine: «L’immagine è un fatto» - § 3. L’immagine del fatto: «noi ci facciamo immagini dei fatti» - II. La teoria raffigurativa della proposizione: § 1. «La soluzione... sommamente semplice» - § 2. «Il mistero profondo della negazione» - § 3. «La bipolarità» della proposizione - § 4. «La proposizione elementare» - § 5.L'articolo è stato aggiunto al carrello
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