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"Noi lavoratori a tempo determinato i nostri pensieri ce li teniamo dentro fino alle 5 e un minuto, poi usciamo e ci scarichiamo
Per poterci conquistare il contratto a tempo indeterminato dobbiamo comportarci in maniera esemplare, senza litigare con nessuno e senza avere comportamenti fuori della norma". "Uno che non è fisso deve stare un po' attento a non fare tanti scioperi, così lo tengono". "Chi è a tempo determinato, e sa che fra un mese o sei mesi gli scade, se gli chiedono il sabato dice di sì perché ha paura che lo lascino a casa".
Sono alcuni dei giudizi di lavoratori, "temporanei" e no, riportati da Aris Accornero nel suo San Precario lavora per noi: un agile volumetto che oltre a quello di riportare l'attenzione su un fenomeno cruciale della nostra attuale vita sociale quale appunto il "precariato" ha altri numerosi e significativi meriti. In primo luogo quello di tentare di mettere un po' di ordine nel lessico e nelle categorie con cui, nel linguaggio corrente, ci si riferisce al fenomeno, distinguendo opportunamente tra "lavoro precario", "lavoro temporaneo", "lavoro atipico", troppo spesso considerati come sinonimi, e accomunati in un unico buco nero della soggettività e delle garanzie.
In realtà, non tutti i lavori "temporanei" sono anche, necessariamente, "precari": lo sono solo in una situazione di debolezza strutturale del lavoro, in cui nulla assicura che terminata un'occupazione se ne possa trovare un'altra adeguata, e in cui il sistema di garanzie sociali non tutela il lavoratore nell'intervallo tra un'occupazione e l'altra, cosicché la durata indefinita del lavoro finisce per costituire l'unica "garanzia". Né, allo stesso modo, tutti i lavori "atipici" sono di per sé anche "temporanei" e/o "precari": lo diventano solo se l'uscita dalla tipicità del lavoro "fordista", regolato strutturato e a tempo indeterminato, è utilizzata dal sistema delle imprese per regolare i conti con la propria forza lavoro e ridurre o aggirare il sistema delle garanzie conquistate e consolidate in una lunga stagione di conflitto e di negoziazione. Insomma, la precarizzazione del lavoro, e la "caduta" nell'inferno dell'incertezza e nell'ansia della improgrammabilità della propria vita, non è necessariamente connessa con l'inevitabile flessibilizzazione del mercato del lavoro postfordista, ma con un suo uso improprio e aggressivo nei confronti del lavoro, o con una cattiva capacità di regolazione normativa.
Il secondo merito del libro riguarda la dimensione quantitativa del fenomeno: la segnalazione della vera e propria "jungla statistica" che riguarda i numeri del precariato, su cui spesso il dibattito pubblico, politico e sindacale ricorda più il gioco dei dadi che non una razionale riflessione. Quanti sono i "precari"? Difficile, appunto, da dire, se non si sa con certezza "chi" sia definibile come "precario". Se li si assimila ai lavoratori "temporanei", sono tanti ma non tantissimi (meno di quanti spesso vengono censiti sulla base del diffuso errore di contare il numero di contratti di lavoro ripetuti in un anno anziché il numero di lavoratori impiegati): su sedici milioni e mezzo di "occupati dipendenti" nel 2005, i titolari di contratti di lavoro "temporanei" supererebbero secondo l'Istat di poco i due milioni (una percentuale intorno al 12 per cento) contro quattordici milioni e mezzo di occupati a tempo "indeterminato" (pieno o parziale).
Ma se si mette in campo anche la categoria dei lavori "atipici" tutto si complica, dal momento che questa comprende anche numerose forme di lavoro formalmente "autonomo" svolto tuttavia in condizioni assai simili a quello "dipendente". Ne è una prova la difficilissima classificazione dei cosiddetti co.co.co. (titolari di contratti di collaborazione coordinata e continuativa) trasformati dalla "legge Biagi" in co.co.pro (lavoratori "a progetto"): lavoratori che mantengono una formale autonomia progettuale e, in teoria, ma molto in teoria, anche organizzativa, che però operano nell'ambito di attività complesse del "committente" e spesso all'interno delle sue stesse strutture fisiche, con orari, specifiche, controlli gerarchici predeterminati. Il sistema Excelsior ne censisce 332.000, l'Istat 391.000, il Cnel 600 o 700.000, i sindacati addirittura un milione e forse di più. Il che sembrerebbe indicare una sostanziale e strutturale difficoltà dello stesso apparato statistico e delle sue "istituzioni" a emanciparsi dal dominio delle categorie e della mentalità "fordista" e di adeguare i propri criteri alle nuove condizioni "postfordiste".
Un terzo merito del libro sta nella dimostrazione (e denuncia) della parallela "jungla lavorativa" che è venuta a caratterizzare il mondo del lavoro nell'ultimo quindicennio. Del moltiplicarsi oltre ogni necessità delle figure contrattuali, in particolare di quelle "atipiche", e dei rispettivi trattamenti normativi, fino a raggiungere cifre francamente grottesche, tanto ampie da impedire di per sé un normale funzionamento del mercato del lavoro, con "etichette" e definizioni che sarebbero ridicole se non nascondessero realtà sofferte, come il "lavoro in affitto", il "lavoro somministrato", "interinale", "on-call", ecc. Nel 2001 apprendiamo l'Istat aveva classificato ben quindici diversi tipi di "rapporti di lavoro atipici", previsti dal cosiddetto "pacchetto Treu", "che salivano a 31 se si considerava anche la durata del lavoro". Nel 2003, in conseguenza della "riforma Biagi", il numero era salito a ben ventuno rapporti atipici, "che salgono a 48 se si considera anche la durata del lavoro", quando negli altri paesi non si va oltre le otto o nove figure.
Si spiega così l'impatto violento del fenomeno del "precariato" o meglio, della "precarizzazione del lavoro" sull'autorappresentazione sociale. Il diffuso senso di insicurezza, instabilità, improgettabilità della propria vita, che caratterizza il nostro senso comune, al di là stesso della dimensione strettamente quantitativa. Esso deriva in buona misura, come suggerisce Accornero, dalle modalità con cui è stata gestita sul piano politico e legislativo la transizione dal fordismo al postfordismo, in modo frammentario, contraddittorio, incerto, così da diffondere un'inquietante sensazione di de-costruzione o di "smontaggio" del sistema di garanzie. L'impressione di un "salto nel vuoto", condivisa da chi nel precariato ci è nato e da chi nel precariato teme di cadere, dai lavoratori atipici e temporanei così come da quelli tipici e "indeterminati". E poi dalla parzialità dell'intervento di flessibilizzazione del mercato del lavoro, realizzata su un'unica direttrice quella della modificazione delle normative sul lavoro anziché affiancarle anche l'altro, indispensabile pilastro, costituito dall'ampliamento della rete di tutela e garanzia dai lavoratori "tipici", di stampo "fordista", alle nuove figure "postfordiste", inventando nuovi "istituti" e tecniche di riduzione dell'incertezza. Cosicché la flessibilità è venuta a coincidere, nell'immaginario collettivo, con la caduta, la deregulation e la precarietà. Né sono sembrate nel centrodestra, soprattutto, ma in qualche misura anche in alcuni settori del centrosinistra emergere posizioni determinate a superare il carattere tutto sommato ideologico del "flessibile è bello" e lavorare alla definizione di una giusta misura della flessibilità, compatibile con le stesse esigenze di qualità e di fidelizzazione delle imprese.
Inappuntabile, da questo punto di vista, la conclusione: "Se il fordismo è andato in crisi perché la sua rigidità era arrivata all'estremo, il post-fordismo potrebbe andare in crisi perché ha portato all'estremo la flessibilità; e forse potrebbe implodere anche più rapidamente del modello taylor-fordista".
Marco Revelli
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