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Santo jullàre Françesco. Con videocassetta - Dario Fo - copertina
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Santo jullàre Françesco. Con videocassetta - Dario Fo - copertina
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Descrizione


La tradizione popolare è ancora una volta il perno del lavoro di elaborazione di Dario Fo: attraverso storie, miti e leggende popolari, Francesco appare nella sua debolezza umana, nella sua indisponibilità al compromesso, ma allo stesso tempo nella sua profonda comprensione dell'animo umano e dell'idea di un Dio aperto al dialogo con l'uomo peccatore. Grazie a lu santo jullaré Francesco, lo spettatore-lettore potrà quindi conoscere in un'ottica nuova, non agiografica, San Francesco e gli episodi celebri della sua vita, tutti affabulati da uno dei grandissimi del teatro italiano.
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Dettagli

1999
30 novembre 1999
9788806153908

Voce della critica


recensioni di Giacch‚, P. L'Indice del 2000, n. 05

Ormai le librerie hanno piene le scatole. E se si può sorvolare su quelle con magliette e manifesti, non si può evitare il confronto con quelle, sempre più numerose, nelle quali il libro è unito a un video, anche se spesso entrambi non fanno un testo ma si appoggiano l'un l'altro come due pretesti. La scusa di fondo è però cambiata ed è passata dal lamento sul "si legge sempre di meno" alla pretesa di "voler dare di più" e, per la verità, sono appunto sempre di più le cose "letterarie" che si collocano sopra le righe e fuori dei libri. E, se spesso si esagera nel reputare sommi poeti i nostri più amati cantanti e parolieri, è pur vero che i moderni artisti dello spettacolo hanno il diritto (e finalmente hanno anche il mezzo) di essere rispettati come autori. Il video-libro allora è un modo per riconoscere la cittadinanza letteraria dei linguaggi che non si contengono nella pagina ma si liberano nella scena, che non si limitano ai segni ma hanno bisogno dei suoni e dei gesti e dei volti di chi fa arte con se stesso e, talvolta, di se stesso.
Ora, sarà solo una coincidenza, ma l'attribuzione del premio Nobel a Dario Fo ha reso ancora più evidente il diritto degli "animali di scena" a installarsi nella vecchia libreria, se è vero che - fino a poco tempo fa - perfino la serie Rai delle commedie di Eduardo era in vendita solo nelle edicole. Il fatto è che, malgrado le ipocrisie dei critici e le invidie dei teatranti, il caso Fo è l'esatto contrario dell'affaire Molière: nessuna giuria reale o corte accademica ci toglierà infatti dalla testa che per una volta è stato l'attore a riscattare l'autore e a trovargli un posto nella terra benedetta della Cultura maiuscola. E di conseguenza nessuno ci toglierà dal cuore la soddisfazione di aver visto infine nobelitato un campione della letteratura orale anzi di quella agìta, contro la logica e la tradizione di un premio da sempre riservato ai maestri di quella scritta.
Non sappiamo se l'attore Fo si troverà d'accordo con questa valutazione: a leggere l'etichetta della scatola che contiene il suo ultimo spettacolo non sembrerebbe, e ce ne dispiace. Non vorremmo che anche lui avesse scambiato applausi per fischi, quando in molti si sono scandalizzati perché il massimo premio degli scrittori si è per una volta "rivoluzionato" in omaggio al più famoso degli attori. Il fatto è che - comunque l'abbiano motivato gli svedesi e criticato gli italiani - per una volta la definizione di letteratura è ritornata quella larga e antica che comprende il dire e il fare e tutto il mare possibile che ci sta in mezzo. E in mezzo al mare ci stanno da sempre quegli uomini di teatro tutti d'un pezzo che assommano in sé tutti i ruoli necessari alla scrittura di scena (e non possono dunque essere premiati per il testo anziché per la voce, per le scene anziché per la regia): fra questi, Dario Fo era davvero il più adatto prima che il più conosciuto, perché tutta la pluralità dei suoi mestieri e dei suoi meriti finiscono per confluire nell'invenzione della sua stessa "maschera".
Forse si è sbrigativi ma non certo ingenerosi se gli si riconosce questa eccezionalità: lo si potrebbe paragonare a un musicista che, prima di essere compositore o esecutore, sia arrivato alla gloria e sia destinato a passare alla storia per avere inventato uno strumento. E non so nella musica, ma nel teatro miracoli come questo sono tanto rari quanto necessari: nella storia del teatro si tiene conto di tutti e di tutto, ma chi fa nascere una maschera nuova fa capitolo a sé.
Certo, come è per tutti gli strumenti, non è detto che siano adatti ad ogni genere di musica né che producano sempre un generale incanto o un'ininterrotta armonia. Non basta del resto saperli suonare bene, ma occorre saper scegliere il momento e il modo del loro intervento. Non tutti ad esempio sono da banda o da orchestra, e quello di Fo, come si sa, funziona molto meglio negli assòli. Come invece non si sa, anche la sua, come tutte le maschere, è versatile ma per nulla eclettica: non è vero che gli permette di farne di tutti i colori, anzi a guardar bene gli si addice soltanto il nero senza spazio del mimo surrealista, dove affonda l'eloquio senza tempo del ciarlatano illusionista. Una combinazione che appunto, messa in maschera, equivale a una lingua biforcuta che si contrasta da sola, producendo, nel contrappunto fra il film muto dei gesti e il sonoro sovrabbondante delle parole, lo stupefacente disordine di una scena affollata da un solo attore.
Lui questo risultato drammatico lo chiama poi affabulazione, ma in un certo senso è invece il suo contrario: il filo del racconto infatti non lo si coglie se non inseguendo gli sproloqui cinetici e le ginnastiche verbali di un ragno che sembra combattere contro la sua stessa tela. Ed è così da sempre, se per "sempre" si intende dai tempi di quel memorabile Mistero Buffo che è diventato giustamente famoso in tutto il mondo, quanto e forse di più del prestigioso premio che gli è stato assegnato.
Dato questo a Cesare, bisognerà però che si torni a discutere delle sue opere, certo con il rispetto ma anche con la libertà dovuta, soprattutto quando si è di fronte al suo secondo tentativo di parlar di Dio, o meglio stavolta del suo più noto e alto imitatore. Il video-libro Lu santo jullàre Françesco mette insieme i testi e le immagini e le note e gli avanzi dello spettacolo omonimo che ha debuttato al Festival di Spoleto dell'anno scorso e poi ha girato per le piazze medievali d'Italia. Uno spettacolo che ha già avuto un indiscusso successo di pubblico e un discutibile omaggio della critica, e di cui vorremo discutere la scatola di smontaggio che lo documenta e per quanto le è possibile lo contiene: qualcosa che ovviamente ci rinvia allo spettacolo, ma ci vieta la situazione e l'emozione del suo evento - il che non è poco. E tuttavia quello che il "teatro in scatola" ci dà è la possibilità di vedere da lontano, e se si vuole anche in moviola, il testo e il contesto di un'operazione sulla quale lo spettatore non ha mai voglia né modo di riflettere. Qualcosa che, come s'è detto, non è il prodotto spettacolare ma che è utile per capire il processo di lavoro (e autorizza perfino un processo alle intenzioni dell'autore-attore) - il che è molto (e perfino troppo).
Ci si accorge così che il Santo Francesco di Fo non è solo la continuazione del suo percorso e discorso sul giullare, ma la sua soluzione o dissoluzione finale. Non si tratta più, per Dario Fo, di giustificarsi come il rompiscatole politico o lo sparaballe storico che umanizza angeli e madonne, al fine di rendere più giustizia e magari più allegria alle parole e alle parabole dei tanti vangeli che fanno parte della nostra cultura. Stavolta è di scena il Giullare di Dio, che per definizione rappresenta la quadratura del cerchio del suo tema ideale e del suo problema teatrale: stavolta non c'è cristo che tenga, dacché si può indossare il saio di un santo che si è proclamato fratello di tutti i giullari e dunque nonno di tutti gli attori. E in più il poverello d'Assisi è un personaggio vero della storia, anche se le sue storie si chiamano "leggende" e si intrecciano e si confondono in un vasto e ghiotto repertorio; e gli storici che ci hanno frugato dentro ci assicurano che Francesco è davvero stato un formidabile performer e un efficace predicatore, mentre l'iconografia e la devozione aggiungono il ritratto di uno un po' matto e sempre sorridente, che per di più ha passato tutta la vita a "fare compagnia". Una compagnia che non era fatta certo di saltimbanchi, ma in fondo i primi francescani erano sicuramente girovaghi e pezzenti, bizzarri provocatori e involontari esibizionisti, aperti agli incontri e fabbricatori di relazioni, portatori di pace e di serenità. Non erano uomini di teatro, ma non si bestemmia nel ritenerli la loro bella e santa copia. Altro che San Genesio - sembra concludere Dario -, è San Francesco il patrono dell'arte della scena; lui che conosceva tutti i trucchi e i lazzi, i tormentoni e i ribaltoni che fanno di quest'arte comica la parte umile della poetica ma anche la parte sana della retorica.
Se i conti teatrali gli tornano tutti, quelli politici - essenziali per Fo - non hanno nemmeno bisogno della verifica. Fra i santi di sinistra San Francesco viene prima di San Giuseppe e se si vuole dello stesso Gesù. In fondo la militanza l'ha inventata lui, la fraternità e l'uguaglianza l'ha portata all'eccesso, la povertà era la sua bandiera e gli ultimi erano i suoi primi pensieri. Se poi si considera la sua proverbiale sensibilità ecologica, diventa perfino l'unico santo al passo con i tempi e all'altezza dei problemi: era inevitabile che prima o poi il Giullare di Dio dovesse indurre in tentazione il premio Nobel degli Attori.
Alla tentazione deve essersi aggiunta la fretta, visti i tempi sospetti e così vicini all'apertura del mercato giubilare. Per la cronaca, altri Franceschi sono già nati anche "a testa in giù", ed è facile prevedere che la stagione degli Stabili sarà più generosa di quella delle diocesi in fatto di laudi drammatiche e sacre rappresentazioni, dove i penitenti e i pauperisti fanno - per una volta - la parte del leone. Non si può imputare a Dario Fo la responsabilità di questo "apriti cielo". È lecito però sospettare che non gli sia dispiaciuto - per una volta - trovarsi all'avanguardia.
Detto fatto, Dario Fo non ci ha pensato due volte, e forse questo è stato il suo errore. Avrebbe dovuto sapere che troppe coincidenze e tante risoluzioni bell'e pronte a priori non aiutano le evoluzioni o le sorprese della drammaturgia. E così, esaurita la trovata del Giullare di Dio nel prologo, né l'intreccio né il messaggio riescono a svilupparsi gran che. Inoltre, seppellito Francesco dentro la similitudine con l'attore, sembra che a Dario non resti che giocare in perfetta solitudine: e stavolta davvero affabula e confabula fra sé e il pubblico, ostentando il filo di tutte le sue vecchie marionette, quei papi e cardinali e poveri contadini ("... e povero anche il cavallo"), con cui rimpasta un Medioevo troppo pittoresco e tutto pitturato nel pleonastico fondale.
A guardare o a leggere in sequenza degli aneddoti che non diventano mai drammi, ci si stanca come a scuola: troppe spieghe e nemmeno una piega dove l'attore possa ricoverare una provocazione o dove lo spettatore possa ripararsi dall'effluvio di storielle più insulse che amene. In effetti, Francesco che predica ai bolognesi in napoletano, Francesco giovanotto spaccamontagne e abbattitorri, Francesco che per ordine del Papa si rotola con i porci, può ancora sembrar matto o provocatore nel suo contesto, ma nel testo e nel video d'oggidì è solo un gioviale mattacchione.
Quello che conta a teatro però non è la storia, ma il contastorie, che in questo caso addirittura brilla per eccesso di presenza, ma manca della necessaria ambiguità ovvero del minimo senso di ospitalità: quando c'è Fo in scena, per san Francesco non c'è più posto. Era questo che volevasi dimostrare?
Forse quello che si voleva era l'esatto contrario. Dario non vuole raccontare Francesco come oggetto, ma lo vuole soggetto della narrazione; e nemmeno lo interpreta come un personaggio, ma addirittura se lo imparenta come un altro se stesso, scommettendo anche per celia sulla corrispondenza se non sull'identità fra il giullare d'Iddio e il dio dei giullari. Quello che cerca di fare però, nel suo solido laicismo, non è un'evocazione né una possessione, ma una sanguigna trasfusione che magari toglierà a Francesco un po' d'anima ma finalmente gli darà corpo. Quello che non aveva previsto è che un santo, una volta persa l'anima, non sa più a che attore rivolgersi: e così al poverello Francesco gli accade di non parlare più attraverso Dario, ma di parlare proprio come Dario; al punto che, chiamato a raccontarne una delle sue per intrattenere la gente a una festa di matrimonio, non trova di meglio che recitare un pezzo del repertorio di Fo. E lo recita proprio come avrebbe fatto l'autore, con la stessa carnale gestualità e gioviale vivacità, per una volta abbassando a umana simpatia una "perfetta letizia" forse più difficile e magari troppo alta.
Sembra proprio Dario Fo, direbbe il solito bambino del "re nudo"! La trasfusione è perfettamente riuscita, direbbe invece un prestigiatore che si mette il cappello in testa invece di estrarre un coniglio! Forse il tutto fa ugualmente ridere, ma lo scherzo è così sfacciato da ritorcersi contro il suo autore (e povero anche lo spettatore). Stavolta non c'entra il trucco del teatro nel teatro, ma un caotico intreccio dell'attore nell'attore che finisce per confondere lo stesso Dario Fo, che passa dalla prima persona alla seconda e alla terza nel medesimo racconto, finché s'inganna anche lui.
Ora, vogliamo dire che, a stare agli applausi effettivamente "registrati", il pubblico non se ne avvede? E diciamolo, ché nulla cambia. Anzi, ci si offre l'occasione per parlarne, del pubblico, ed osservare come l'amore esagerato di Dario Fo per il pubblico stia diventando una fiducia cieca e mal riposta.
Dai tempi del Mistero Buffo, tanta acqua è passata sotto i ponti da trascinare tutti nel mare dell'utenza televisiva. Nel bene o nel male (non si sa, né c'importa più) gli spettatori sono diventati un termine inesatto, un'abbreviazione impropria o gergale di "telespettatori". Non importa se vanno a teatro o acquistano il video-libro, tanto non si accorgono della differenza, ma solo della diversa comodità o dell'assenza di mondanità. A teatro come davanti al televisore, ad esempio, prenderanno tutti per buona la lezione di storia di Dario Fo, e non perché stavolta gli studiosi citati e i documenti ritrovati sembrano quasi veri, ma perché il premio Nobel è lui e nessuno più sospetta il trucco o annusa qualche forzatura, nemmeno quando lui la dichiara. Il trucco che invece tutti conoscono e apprezzano è quello della riduzione di tutto per tutti, cioè la demagogia della semplificazione o meglio la rivoluzione culturale per la quale l'alto deve andare verso il basso (e mai viceversa). Francesco d'Assisi, diciamolo, al giorno d'oggi rischierebbe di essere scambiato per un santino scialbo che ci dà un messaggio scontato, se in suo soccorso non ci fosse andato frate Fo, che gli dà energia e gli suggerisce battute, che lo finge più arguto e ne stempera il cupo rigore. Forse Francesco avrà saputo farsi approvare dal Papa, ma senza Dario non avrebbe saputo come piacere all'Audience.
Non si sa allora se complimentarsi o scandalizzarsi, quando un video-libro riesce a essere in linea con il gusto o il livello televisivo del pubblico. Quello che si sa è che, tanto nel libretto che nella cassetta, il teatro c'è in dosi tali da non fare la differenza o almeno da non opporre resistenza. Di solito, c'è sempre una sensazione di leggera incompatibilità e di fastidiosa inadeguatezza davanti a un tentativo di teatro in tv, sia perché si perde la sua fisicità sia perché si sconta la sua arcaicità, sia quando si indovina uno spettacolo bello e impossibile sia quando ci si accorge che dal vivo sarebbe stato impossibile e brutto. Qui invece quasi tutto funziona: la sensazione è appena quella di vedere uno spettacolo in differita anziché in diretta, ma potremmo giurare che la partita è la stessa, e francamente è noiosa. A pensare poi che si tratta di Dario Fo e di San Francesco, dopo la noia vengono anche fastidiosi e ragionevoli pruriti, che però bisognerebbe astenersi dal grattare. Non solo i rimpianti di un altro Fo o le polemiche su un altro Francesco non avrebbero senso, ma in fondo testimonierebbero a favore di una provocazione che stavolta non c'è o che non funziona.
E poi sul Dario Maggiore abbiamo già detto. E di San Francesco il Minore che dire?
Si potrebbe ad esempio ipotizzare che quando Francesco d'Assisi pensò di intitolarsi "giullare d'Iddio" lo fece per squalificarsi come ridicolo, anziché per riqualificare l'arte del comico. Si potrebbe accennare a quegli studi francescani che azzardano che il lupo sia lo stesso Francesco che l'ha domato in sé, proprio come accade agli sciamani, contestando la tradizione del lupo cattivo, che peraltro Disney ha reso parlante prima ancora di Fo. Si potrebbe suggerire che le rare ma preziose fonti che lo mostrano nell'atto di cantare e danzare, di ridere e piangere insieme e di commuovere senz'altro il Papa e il Pubblico, sono le insopprimibili allusioni alla sua abitudine e capacità di andare in trance, e in nessun modo le dimostrazioni di una qualche abilità spettacolare o padronanza oratoria, sulla quale invece pesano ancora le prove contrarie e i dubbi degli studiosi. In effetti, sulla scia di quanto scrive Tommaso da Spalato, testimone oculare del famoso comizio di Bologna, si potrebbe concludere che proprio questo è il "mistero buffo" di Francesco d'Assisi: tutt'altro che dotato come predicatore, era un uomo di poche parole e di umili azioni, che peraltro ha davvero convinto i nobili bolognesi, ma anche avvinto a sé folle di minori, togliendosi progressivamente da ogni scena e in un certo senso persino tagliandosi ogni lingua.
Ma tutto questo non serve a ristabilire un'inutile saccente verità contro la sacrosanta libertà del Francesco di Fo. Serve semmai a dimostrare entro quali limiti angusti si sia voluta muovere l'invenzione e l'inversione del teatro; come se Dario Fo avesse preferito frenare la fantasia e l'anarchia, preferendo porsi sotto la protezione politica delle parole e delle prove della Storia.
Ora, anche ammettendo che gli studi e gli archivi gli diano davvero ragione, proprio qui sta il suo torto: non s'è accorto che la Storia è nemica di Francesco, e infine anche del teatro. In fondo, per quanto la passione critica lo divori, ogni storico finisce per fare il suo mestiere o dovere, che è quello di riconsegnare anche un santo o un matto al suo contesto. Ma è proprio questo il caso in cui il teatro ha il dovere di non andargli dietro, o peggio mettersi sotto. Così facendo, otterrà dalla Storia solo l'usufrutto delle storielle in cui degrada e del senso comune in cui si solidifica, ma quel che è peggio non coglierà l'occasione per fare il suo di mestiere, che è quello di dar vita e moltiplicare il sogno di chi, come Lu Santo Françesco, ha fatto di tutto (forse anche il giullare) per sfuggire al suo mondo e al suo tempo. E se questa santa aspirazione o folle disobbedienza non la difende il teatro, quale studioso o quale politico la rispetterà?
Ma a quanto pare, Dario Fo da quest'orecchio non ci sente più. E anche il teatro intero non si sente troppo bene. Forse, per ospitare i santi ci sarebbe bisogno di altri spazi o di altri stili, meno generosi ma più rigorosi. Forse, per indossare le loro maschere magiche, ci si dovrebbe prima spogliare del tutto, come ha indicato Francesco. Comunque, chi ha già inventato una maschera, non può indossarne sopra un'altra senza rischiare di perdere la faccia. A Dario era già successo una volta, ai tempi di un Arlecchino per metà tautologico e per metà tradito, la meno convincente eppure la più studiata delle sue cento rappresentazioni.
E finalmente Francesco ha davvero un'aspetto disprezzabile, l'abbigliamento miserabile, "il suo viso senza alcuna beltà", dice chi l'ha visto. Su quel viso, la sua maschera è sicuramente invisibile e probabilmente inimitabile, visto che è il prodotto a sua volta di un'imitatio ardua e alta. A prescindere da ciò, sarebbe dissonante (molto più che dissacrante) se un attore comico si provasse sul volto la maschera di uno sciamano. Non si tratta, per il teatro, di prendere a prestito un mito ma di invadere il territorio del rito. Sarà per questo che un attore, come da proverbio, può scherzare coi fanti e magari tirar giù i cristi, ma è meglio che lasci stare i santi, che sono attori di un altro mondo e artisti di un'altra dimensione.
Per la verità, nulla è vietato nell'arte della finzione, ma la posta s'innalza. È lecito attendersi come minimo un miracolo.
Ma a guardar bene, Lu santo jullàre Françesco un piccolo miracolo l'ha fatto: nel video che registra un solo spettacolo ma mescola tanti diversi pubblici, a un certo punto si vede chiaramente Massimo D'Alema che ride. Non è roba da poco. Magari ci siamo sbagliati a essere così duri con il San Francesco di Dario Fo. Chissà che le vie francescane, a dispetto della nostra avversione per la Storia, non siano anch'esse infinite?
In fondo l'unico vantaggio di disporre di un video-libro al posto di uno spettacolo è che si può, e forse si deve, "riprovare per credere".

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Dario Fo

1926, Leggiuno Sangiano, Varese

Attore e autore teatrale italiano. Premio Nobel per la Letteratura nel 1997.Dopo gli studi all’Accademia di Brera e le prime prove di teatro-cabaret (Il dito nell’occhio, 1953), ha scritto, diretto e interpretato testi in cui si fondono felicemente umorismo paradossale, comicità clownesca (derivata dalla tradizione popolare giullaresca e dalla Commedia dell’Arte) e satira politica: Settimo: ruba un po’ meno (1964), Morte accidentale di un anarchico (1971), Ci ragiono e canto (1972), Non si paga, non si paga (1974). Per i suoi monologhi (da Mistero buffo, 1969 e successivamente ampliato, a Johan Padan a la Descoverta de le Americhe, 1991, e Ruzante, 1995) ha inventato una vera e propria lingua, il grammelot, creativo ibrido dei diversi dialetti dell’Italia...

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