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scheda di Lugli, A., L'Indice 1994, n. 2
Louvre British Museum sono stati tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento i primi due grandi musei moderni in Europa. A distanza di duecento anni, mentre la Francia celebra il trionfo del Grand Louvre, niente lascia supporre che da parte anglosassone si voglia emulare il costosissimo progetto francese. Eppure anche il British Museum si prepara a occupare nuovi spazi espositivi, quelli della British Library che si sposterà nel 1996 a St. Pancras, lasciando inutilizzata la famosa sala di lettura a pianta circolare, progettata da Sidney Smirke, aperta al pubblico nel 1857, che ha visto seduti in studioso raccoglimento molti lettori illustri, tra cui Lenin e Marx. Nell'ultimo decennio i musei inglesi hanno attraversato una profonda crisi finanziaria, che aveva anticipato quella attuale della maggior parte dei musei europei. Il Victoria and Albert si è visto costretto nel 1985 a non concedere più l'ingresso gratuito. Il British a sua volta è stato oggetto di pressioni molto forti perché si avviasse per la stessa strada, sospendendo una consuetudine di cui si era fatto vanto fin dalla sua apertura. Vicende istituzionali, problemi museologici e museografici del più grande museo anglosassone sono oggetto della vivace e brillante riflessione di uno dei suoi più autorevoli direttori, David M. Wilson, che è a capo del museo per quindici anni e dichiara di aver scritto questo libretto, pubblicato nel 1989, per la cura dei Trustees dello stesso museo, più tra un aeroporto e l'altro, che nella calma del suo studio. Detto questo ci si potrebbe aspettare di avere tra le mani il giornale di bordo di un manager museale, secondo una tipologia che, su imitazione americana, si è diffusa in parte anche in Europa. Ma non è così. Wilson difende l'impostazione di un museo che vuole essere portatore di cultura, prima che impresa commerciale. Anzi è un direttore che sa bene, e lo dimostra con cifre, che per svolgere le sue mansioni di tutela, di conservazione e di un corretto rapporto col pubblico, il museo non potrà mai dare a chi lo gestisce vantaggi economici. Perciò l'accento è posto soprattutto sui servizi che l'istituzione potrà offrire: la disponibilità del suo personale scientifico per expertise gratuite su reperti e oggetti d'arte e una politica molto oculata degli acquisti, che, in Gran Bretagna, dopo la fine dell'impero, soprattutto per la parte etnografica, ha dovuto fare i conti con una realtà profondamente cambiata. Non potendo più disporre di canali privilegiati e non essendo in grado di pagare i prezzi imposti dagli antiquari, il museo cerca di acquistare direttamente sul posto, quando può. In altri casi dirotta la sua attenzione su reperti meno colpiti dal mercato, come gli oggetti prodotti dall'interazione della cultura occidentale con quelle indigene. Lo scritto di Wilson (in una traduzione che chiama i servizi culturali del museo 'ufficio della cultura' e le didascalie delle opere 'etichette') appare abbastanza a sorpresa, e utilmente, per il lettore italiano che è assuefatto, in questo ultimo decennio tra Beaubourg e Louvre, soprattutto a una museologia francofona. Nell'intenzione dei curatori doveva aprire un dibattito sulle nostre istituzioni. Ma niente di più incomunicabile del ritratto di una macchina museale ben collaudata come è il British Museum descritto da Wilson, messo a confronto con una serie di interventi "all'italiana", in cui ciascuno cerca di dire la parola definitiva sul museo. Il museo ideale e irraggiungibile nella disastrata situazione nostrana è il "museo per la comunicazione", ultimo travestimento rimodernato di quello che era stato negli anni sessanta il "museo per la società".
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