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La scomparsa dell'Italia industriale
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La scomparsa dell'Italia industriale - Luciano Gallino - copertina
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scomparsa dell'Italia industriale

Descrizione


In quarant'anni l'Italia ha perso quasi per intero la propria capacità industriale, che sarebbe azzerata se dovesse cadere anche l'industria dell'automobile. Se non troverà modo d'inventare una politica industriale adeguata, sarà presto collocata nel novero dei paesi semi-periferici del sistema mondo. Anche se dovesse mantenere in loco qualche stabilimento di produzione, tutte le decisioni in merito all'occupazione, alle retribuzioni, a cosa si produce e a quali prezzi, ai prodotti che entrano nelle nostre case e conformano la nostra vita, saranno prese altrove.
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Dettagli

2003
3 giugno 2003
106 p.
9788806166281

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@mik.ecast
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Lo Stato Assente

Piccolo testo che illustra per cenni la storia della politica industriale dell'Italia, divisa per alcuni settori, e che individua la principale causa della sua decadenza in un soggetto: lo Stato. "L'errore dell'Italia" scrive infatti Gallino "è stato di non compiere per decenni alcuna scelta". Problema che tuttavia contiene anche la sua soluzione: uno Stato rinnovato, attivo e che faccia scelte precise e coraggiose in un'ottica di lungo periodo.

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Massimo
Recensioni: 5/5
Gallino

Libro da leggere assolutamente.Chi ha dato un giudizio negativo forse dovrebbe rileggerlo una seconda volta anche alla luce dei più recenti sviluppi delle imprese dei manager di stato.

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Poi dicono che uno...
Recensioni: 5/5

La scomparsa dell'Italia industriale (2003) è un brevissimo, ma ottimo libro (come sempre) di Luciano Gallino. "In quarant'anni l'Italia ha perso quasi per intero la propria capacità industriale, che sarebbe azzerata se dovesse cadere anche l'industria dell'automobile. Se non troverà modo d'inventare una politica industriale adeguata, sarà presto collocata nel novero dei paesi semi-periferici del sistema mondo". Parole profetiche. E ancora: "Non è un'impresa da poco, aver lasciato scomparire interi settori produttivi nei quali si è stati tra i primi nelle classifiche internazionali." "Un primo criterio guida è consistito nel profondere in progetti industriali dissennati gli immensi capitali immessi nel sistema economico italiano sia dagli ordinari salvataggi di aziende private operati a più riprese dallo stato." Sui manager Gallino afferma: "Convinzione alla quale si appaia la credenza metafisica per cui un buon manager è intrinsecamente onnicompetente; se ha dato buona prova, putacaso, nel dirigere un istituto finanziario, si può esser certi che saprà eccellere anche nella direzione di una fabbrica di laminati plastici - o viceversa". Gallino fa l'elenco dettagliato dell'industria scomparsa: l'informatica, l'aereonautica, la chimica, l'elettronica, le imprese high tech. Le politiche liberiste sostenendo che privato è meglio di pubblico hanno sostenuto per la pubblica amministrazione "una progressiva aziendalizzazione orientata allo standard di efficienza, efficacia, produttività ed economicità." L' autore ricorda: "Alcuni dei più vistosi successi del mercato degli ultimi decenni hanno dietro di sé la mano pubblica" Fa l'esempio di Internet: "Ma la grande Rete semplicemente non sarebbe mai venuta in esistenza senza il fiume di finanziamenti federali affluiti per decenni in Usa, ai centri di ricerca universitari e aziendali."

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Voce della critica

In modo secco e scarno, Luciano Gallino fa una serrata requisitoria contro la perdita di quel patrimonio industriale che ancora quarant'anni fa aveva il suo baricentro nel "triangolo" Torino-Milano-Genova. Il suo libretto rifugge dalla polemica diretta limitandosi a ricostruire fatti e misfatti della nostra recente storia industriale. Con competenze di prim'ordine e ricchezza di riferimenti, Gallino documenta in modo impressionante una vicenda fatta di occasioni perdute e di opportunità mancate, dove le defaillance hanno contato più delle sviste.

Nel primo capitolo racconta lo svuotamento progressivo dell'industria informatica, che con l'Olivetti aveva toccato soglie d'avanguardia mondiale, segnate dai potenti mainframes Elea, poi dal primo computer da tavola, e infine dai primissimi portatili. Nel secondo capitolo dà conto della rinuncia all'industria aeronautica, le cui tradizioni risalivano all'Italia prefa-scista e la cui pietra tombale è stata posta con la mancata partecipazione al consorzio europeo Airbus. Nel terzo tratteggia lo "sgretolamento" dell'industria chimica, dominata non dalla competizione industriale bensì dalle lotte di potere fra grande capitale pubblico e privato (Eni e Montedison) che hanno portato a debiti, cessioni e chiusure in tutto il settore.

Nel quarto capitolo Gallino prende di mira gli effetti rovinosi che all'industria delle telecomunicazioni sono venuti da risibili scelte paupe-riste, come quella fortemente voluta dal Partito repubblicano contro la tv a colori. Nel quinto analizza gli effetti perversi generati da politiche del settore pubblico (soprattutto Finmeccanica) assurdamente incapaci di mettere in valore tutto il potenziale innovativo del-l'Italia nel campo della metalmeccanica high tech. Nel sesto rilegge infine la grave crisi odierna dell'in-du-stria automobilistica, criticando senza moralismi gli indirizzi incoerenti seguiti sia dal management che dalla proprietà: del resto, a differenza di che quel che sostiene la Fiom-Cgil, la colpa della Fiat non è di avere abbandonato l'auto, bensì di avere trascurato l'auto pur non avendo deciso di abbandonarla. (Si veda l'apposito fascicolo di "Industria e cultura", 2002, n. 2).

Con questo approccio ben ancorato al parametro delle tecnologie e con una scelta di casi invero emblematica, il sociologo industriale mette dunque insieme un inconfutabile atto di accusa per governanti, politici, imprenditori e manager. Gallino non sceglie la comoda strada di dire il peccato ma non il peccatore. Quanto al peccato, nel capitolo finale afferma a tutte lettere che "l'errore del-l'Italia è stato di non compiere per decenni alcuna scelta" circa i settori critici della produzione manifatturiera. E, soprattutto, ricorda alle imprese italiane che la competitività e lo sviluppo si ottengono impiegando "energia e risorse appropriate a produrre più tecnologia, anziché limitarsi ad acquistare la maggior parte di quella che utilizzano".

Ma questo saggio è qualcosa in più di un j'accuse, per cui è difficile leggerlo senza qualche nostalgia. Esso è infatti un memento per imprese e stabilimenti che hanno dato nerbo all'Italia come paese industriale anche al di là del triangolo Torino-Mila-no-Genova. Talvolta queste strutture costituivano delle realtà incredibili, come la metallurgia disseminata sulla costiera ligure, ma avevano fatto da incubatrici tecnologiche e da presidi sociali. Ingeneroso è dunque il funerale della memoria celebrato con fastidio e ripudio verso il mondo fumoso e prosaico della grande fabbrica: penso al "risanamento" turistico-balneare dei siti, cui inneggiavano in agosto alcuni reportage del "Corriere della sera", o al titolo Scurdammoce Bagnoli con il quale Giuseppe Pontiggia descrisse anni fa su "Repubblica" la fine di quell'impianto potente e terribile. (Meno male che, con La dismissione, Erman-no Rea ha saputo rievocare storia e vocazione di quel contrastato insediamento industriale).

Del resto, l'ottica postindustriale diventa talvolta un'ottica anti-in-du-striale, come quando propone alla Calabria il modello della Florida per sca-valcare l'industria e passare subito al terziario. Quest'ottica esibisce una modernità d'ac-catto sia quando misconosce l'industrializzazione della Terza Italia, che nell'ultimo quarto di secolo ha cambiato il volto del paese, sia quando compendia il nostro sistema produttivo nella moda trascurando tutto il restante made in Italy. Ma può fare danni anche un'ottica iper-industriale, come quella che conduce alla distinzione tecno-aristocra-tica fra settori "maturi" e no, con la quale taluni riescono a disdegnare sia l'au-to sia il mobilio. (Errore da cui è esente un industrialista come Piero Fassino. Che peraltro, nel recentissimo libro Per passione, ricorda di aver definito la moda il "petrolio dell'Italia": qualcosa del genere aveva in testa Bettino Craxi quando si fece alfiere di un nuovo modello industriale).

Nella sua critica alla carenze di politica industriale in Italia, Gallino osserva giustamente che una politica industriale ci può essere anche quando non sia stata formalizzata attraverso strumenti di programmazione o disposizioni di legge, tipo quella varata nel 1977 e risultata ottima soltanto sulla carta. In effetti, dopo la ricostruzione postbellica ci sono state due ondate di industrializzazione, consistenti nell'intervento straordinario avviato nel Sud con gli anni cinquanta per iniziativa pubblica e nel decentramento produttivo avviato nel Nord con gli anni settanta per iniziativa privata. Accanto al modello metropolitano, tipico del triangolo industriale, sono stati sperimentati due distinti modelli, uno polarizzato al Sud e uno diffusivo al Centro-Nord, che si sono contrapposti mentre il triangolo declinava.

A partire dall'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, l'azione pubblica intraprese un colossale sforzo di industrializzazione muovendo dal presupposto che lo stato dovesse porre rimedio in via diretta alla carenza di capitale di rischio e di iniziativa imprenditoriale. L'inter-vento straordinario puntava a dotare il Sud di industrie localizzate in "poli di sviluppo" dove lavorare materie prime e fornire prodotti energetici. Il sistema delle partecipazioni statali venne mobilitato per edificare ex novo grossi insediamenti tecnologicamente avanzati (le "cattedrali"), quasi senza raccordi con le poche grandi imprese già esistenti nel Mezzogiorno. La concentrazione degli sforzi e degli investimenti avrebbe dovuto avvicinare la nostra struttura produttiva a quella francese, tedesca e inglese, la società meridionale si sarebbe rigenerata formando nuclei operai evoluti, e il superamento dello storico dualismo Nord-Sud sarebbe diventato una leva di riscatto economico-sociale.

Quel modello di industrializzazione pesante, che si è protratto fino alla promessa di un quinto centro siderurgico per Gioia Tauro, è stato ampiamente studiato e ha suscitato svariate critiche: il Mezzogiorno era visto come un'area omogenea di arretratezza, cui si rifilavano stabilimenti inquinanti tipo le "pattumiere" petrolchimiche, talvolta mai decollate come la Liquichimica); l'indi-rizzo di programmazione era dirigista e tecnocratico, tant'è che la "mano pubblica" calava sul territorio senza intermediari, e ciò non poteva stimolare le energie della comunità; il poco indotto locale non riusciva a promuovere imprenditorialità diffusa; si spendevano ingenti capitali per creare pochi posti di lavoro, quasi tutti maschili. Quello sviluppo ha finito col creare una path dependance che ha focalizzato sull'in-du-stria pubblica tutte le aspettative di impiego, favorendo l'assistenzialismo industriale da cui sono venuti i debiti accumulati dall'Efim per le aziende decotte. (Altrettanto costoso fu l'assistenzialismo agricolo culminato nel crack Federconsorzi).

Altre aree venivano industrializzate in seguito alla crisi del fordismo, delle grandi dimensioni e delle economie di scala. Con il "decentramento produttivo", le maggiori imprese del Nord cominciarono infatti a cedere spezzoni di produzione che finivano a imprese minori e sembravano perdersi. Era cominciata la lunga transizione al postfordismo. Il nostro paese fu tra i primi a esserne investito, con un'industrializzazione nuova che mobilitava energie ma suscitava diffidenze. Lontano dalle "cittadelle operaie" e dal triangolo industriale, l'iniziativa privata modificava profondamente la dislocazione e la dimensione delle imprese e la geografia del lavoro. Col tempo le novità sono andate ben al di là del Nord-Est, dov'erano sorte, investendo per forza endogena le regioni adriatiche e arrivando fino al Sud, tant'è vero che la mappa del made in Italy e della Terza Italia non coincidono con le politiche pub-bliche di incentivazione e di promozione delle aree depresse.

Anche quest'altra Italia industriale, che nessuno sembra avere voluto, è stata ampiamente studiata - basti pensare ai lavori di Arnaldo Bagnasco, Carlo Trigilia e Gianfranco Viesti - ma è ancora sotto scrutinio. Non è agevole, e forse non è neppure giusto, affermare che essa ha sostituito l'Italia industriale scomparsa, se non altro perché un paese moderno ha bisogno sia di grandi che di piccole imprese. Quel che si deve senz'altro affermare è proprio quanto dice Gallino in tema di tecnologie e di ricerca-sviluppo.

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Luciano Gallino

1927, Torino

Sociologo, scrittore è stato professore emerito, già ordinario di Sociologia, all’Università di Torino. Fra le voci italiane più autorevoli, Gallino ha contribuito grandemente  all'istituzionalizzazione della sociologia negli ultimi cinquant'anni, lavorando su molti fronti. I temi che ha indagato nel corso della sua attività accademica ed editoriale riguardano la sociologia dei processi economici e del lavoro, di tecnologia, di formazione e di teoria sociale. È stato uno dei maggiori esperti italiani a proposito del rapporto tra nuove tecnologie e formazione, oltre che delle trasformazioni del mercato del lavoro. I suoi principali campi di ricerca sono stati: la teoria dell'azione e teoria dell'attore sociale;...

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