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Il secolo biotech. Il commercio genetico e l'inizio di una nuova era
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Descrizione


Il matrimonio tra biologia e informatica ha provocato un'accelerazione nello sviluppo dei nuovi prodotti ma anche nuovi problemi. La rivoluzione biotecnologica sta preparando sorprese difficili da immaginare: non resta che considerare la biotecnologia non come una faccenda da scienziati, ma come una macchina nuova e potente. Rifkin illustra i futuri scenari di una rivoluzione ancora più sconvolgente di quella industriale.
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Dettagli

1998
6 ottobre 1998
384 p.
9788880895077

Voce della critica


recensioni di Buiatti, M. L'Indice del 1999, n. 04

Nonostante il gran parlare dell'epoca postmoderna, della fine dell'ideologia positivista e dell'industrialismo, tutti i mezzi di comunicazione sono tuttora permeati dal terrore o dalla fede nell'onnipotenza della scienza e delle tecnologie, cui sono attribuiti dall'immaginario collettivo poteri straordinari di salvezza e distruzione.

Un esempio lampante di questo atteggiamento è costituito da questo volume di Jeremy Rifkin, da molto tempo uno dei più ascoltati guru americani, noto per aver condotto con energia la battaglia antinucleare e quella contro l'ingegneria genetica. Il Secolo Biotech passa dalla denuncia dei possibili rischi della modificazione del patrimonio genetico degli esseri viventi alla presentazione di una vera e propria teoria della transizione al terzo millennio, vista come salto a una nuova società contrassegnata dal trionfo contemporaneo e integrato delle due "tecnologie cult" del secolo che sta per finire: le biotecnologie, appunto, e l'informatica.

Elemento cruciale di questa teoria è un'impostazione fortemente determinista implicitamente basata sull'accettazione del "dogma centrale della genetica", nucleo fondante della moderna concezione meccanica della vita, per il quale le forme-funzioni degli esseri viventi tutti sono interamente determinate dall'azione additiva dei geni e quindi delle sequenze di Dna. Secondo questa visione, se si isola un gene dal corredo ereditario di un organismo e lo si trasferisce in un altro, esso compirà in quest'ultimo esclusivamente la funzione che avrebbe svolto nel primo, senza che nulla di imprevedibile possa derivare dalle interazioni fra il gene inserito e l'insieme dei geni che lo ospitano. Se questo è vero, ne discende intanto che gli effetti dell'ingegneria genetica sugli organismi in cui viene inserito un gene nuovo sono totalmente prevedibili e controllabili, come del resto dovrebbero esserlo quelli dell'organismo transgenico (un individuo trasformato) su altri organismi componenti un ecosistema. Non solo: dato che gli esseri umani sono, almeno da questo punto di vista, assimilabili ad altri esseri viventi, dovrebbero essere totalmente determinati, anche nei comportamenti, dai geni. Unica via per migliorarli sarebbe quindi proprio il cambiamento mirato dei geni per il comportamento, e cioè l'ingegneria genetica.

In una visione opposta, soste-nuta da molti, specie nell'area dell'ambientalismo scientifico, i limiti all'intervento dell'uomo sulla natura derivano proprio dalle interazioni fra le opere umane e il resto dei sistemi in cui sono inserite, interazioni che sono solo in parte prevedibili sulla base della conoscenza dei componenti del sistema presi separatamente, e che possono dare luogo a dinamiche che tendono a divergere in modo esponenziale da quelle che si sarebbero avute in assenza dell'intervento umano. Con l'inevitabile conseguenza che interventi che non tengano conto di questi fatti possono creare ritorni negativi sull'ambiente ma anche sui prodotti stessi dell'intervento dell'uomo. Corollario è, ad esempio, il fatto che, come si è ampiamente dimostrato, la non salvaguardia dell'ambiente porta a un aumento delle cosiddette esternalità (costi dovuti a cause esterne), che incidono talvolta in modo pesante sui bilanci delle imprese.

Questi concetti, trasferiti nel campo dell'ingegneria genetica, dovrebbero sensibilizzare chi vi opera riguardo alla possibilità che parte delle modificazioni indotte non solo possano creare pericoli per la salute e per l'ambiente, ma rendano anche non interessante dal punto di vista economico il prodotto stesso della trasformazione. In altre parole, anche l'ingegneria genetica dovrebbe avere dei limiti intrinseci legati alla natura stessa di sistema interattivo degli esseri viventi.

Fatte queste premesse, vediamo ora cosa dice Rifkin nel suo recente volume. Sono costretto a notare, prima di entrare nel merito, che lo scritto è purtroppo pieno di pesanti svarioni, che non si sa bene se imputare alla traduzione (comunque ai limiti dell'accettabilità), al ricorso a un linguaggio sensazionalistico e perciò scientificamente approssimativo, o a reali lacune nelle conoscenze biologiche dell'autore.

Un esempio che mi pare indicativo dell'uso ad effetto del linguaggio nel volume di Rifkin si riferisce al termine "clone": "E quindi, la propagazione dei cloni, la produzione in massa di un numero illimitato di repliche di queste nuove creazioni, la loro liberazione nella biosfera che permette loro di propagarsi, mutarsi, proliferare e migrare colonizzando la terra, l'acqua e l'aria. Questo, ci piaccia o meno, è il grande esperimento scientifico e commerciale che avverrà, appena gireremo pagina e ci troveremo nel secolo della biotecnologia". L'immagine suggerita da questa descrizione è quella di un brulicame di esseri viventi tutti misteriosamente uguali, alieni e quindi potenzialmente cattivi, capaci di riprodursi senza controllo. Ma vediamo di fare un po' di chiarezza.

(a) Il termine "clone", denotando un insieme di individui tutti derivati da un'unica cellula e cioè gemelli, non ha niente di spaventoso né di pericoloso. Il pericolo della clonazione dei mammiferi (molte piante si clonano da sé) è per i cloni stessi che, essendo troppo omogenei al loro interno, rischiano di non sopravvivere. Nel caso umano di nuovo il pericolo non sta negli individui clonati, ma semmai nell'operazione di replicazione di se stessi e nella mercificazione degli individui che ne derivano, che contrasta con una serie di principi etici affermati.

(b) Altri termini - tra cui "mutante" (diverso dalla maggioranza) - sono usati in modo fuorviante.

(c) L'ingegneria genetica non ha niente a che fare con la creazione della vita, ma è semplicemente fondata sulla strutturazione di nuove combinazioni genetiche mediante il trasferimento di un gene già esistente da un organismo donatore a uno ricevente, ambedue ben vivi prima dell'operazione. Non siamo quindi di fronte ad una nuova Genesi.

In realtà le varietà di piante transgeniche attualmente in commercio sono ancora molto poche - nonostante la prima risalga al 1981 - e presentano modificazioni in pochissimi caratteri. A tutt'oggi, i caratteri nuovi inseriti in alcune (poche) varietà di piante coltivate sono essenzialmente la resistenza a erbicidi, la resistenza ad alcuni insetti, piante maschio sterili di un qualche aiuto nella produzione degli ibridi, pomodori a maturazione ritardata e che marciscono più tardi, e poco più. Questo non per affermare che lo sviluppo non ci sarà, ma per dire invece, come forse avrebbe dovuto fare Rifkin, che siamo lontani dagli effetti delle biotecnologie sperati e temuti. Non a caso la stessa Monsanto, detentrice di gran parte del mercato delle piante transgeniche, sta cambiando strategia e cercando di migliorare le piante con interventi più mirati, meno drastici, che tendano a creare rapidamente nuove combinazioni nella stessa specie o in specie affini, rinunciando a "importare" geni da organismi molto lontani dal punto di vista filogenetico.

Difficoltà molto maggiori di quelle riscontrate nella modificazione delle piante si incontrano nell'alterazione del patrimonio genetico degli animali, molto meno adattabili al cambiamento. Per quanto è dato sapere, non è in commercio un solo animale transgenico utilizzato a scopi produttivi, e l'unico sbocco futuro che appare possibile ed economicamente fruttuoso è la produzione di farmaci per uso umano da parte di animali, come si fa da tempo con batteri in cui è stato inserito il gene umano corrispondente o, ancora, qualche piccola modificazione della qualità dei prodotti ottenuta però con geni appartenenti alla stessa specie o a specie affini.

Visto che gli esseri umani sono fatti più o meno come gli altri animali, da questi esperimenti sembra emergere una scarsa possibilità di modificazione in senso positivo dell'umanità, se non limitata alla cura di alcune malattie mediante la terapia genica in linea somatica o all'intervento su altri, pochissimi, caratteri di una qualche rilevanza probabilmente solo dal punto di vista estetico.

Rifkin non è di questo avviso, giacché abbraccia la corrente determinista anche per quanto riguarda caratteri rilevanti del comportamento umano.

Anche per quanto concerne l'interazione fra biotecnologie e informatica, Rifkin pare affascinato dall'analogia informatica, base della concezione meccanica della vita che assimila gli esseri viventi a computer. Ma non è vero che i computer siano una rete dinamica autonoma e tanto meno che questa sia in grado di rinnovarsi e perfezionarsi. Fino ad ora, perlomeno, non si è mai visto un computer che si auto-organizza!

Questa fantasia "vitalistica" a proposito dei computer sembra far volare di nuovo la mente fertile di Rifkin, che arriva ad affermare con Bob Luton, non a caso project manager della Bio-Image, che "il software è abbastanza intelligente da poter pensare". Lungi da questo, le tecniche più recenti di analisi computazionale delle sequenze di Dna presenti in grande abbondanza nelle banche dati servono, e molto, a valutare somiglianze e differenze fra sequenze, a predirne alcune caratteristiche chimico-fisiche e la forma, a scoprirne regolarità molto importanti per comprenderne la funzione, ma non certo a progettarle. Anzi è proprio la conoscenza delle regolarità che ci sta facendo capire meglio quali limiti dobbiamo imporre alla nostra frenesia modificatrice per operare senza sconvolgere l'equilibrio formatosi durante oltre tre miliardi di anni fra i diversi componenti dei sistemi viventi e le sequenze che ne trasmettono l'informazione.

La visione apocalittica e da fine millennio prospettata da Rifkin sembra portare quello che sta succedendo in campo biotecnologico realmente fuori da ogni controllo; è proprio quello che ci può impedire di contrastare i pericoli reali delle biotecnologie, che pure esistono e vanno affrontati nel concreto, con leggi e comportamenti basati su un'informazione corretta, vietando quello che si deve vietare per ragioni precise, ammettendo quello che ci appare utile, tenendo sempre conto contemporaneamente delle implicazioni per l'ambiente e per la salute, di quelle sociali e dei rapporti Nord-Sud, di quelle etiche in particolare relative alla specie umana.

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Conosci l'autore

Jeremy Rifkin

1945, Denver (Colorado)

Jeremy Rifkin, presidente della Foundation on Economic Trends di Washington, insegna alla Wharton School of Finance and Commerce. I suoi corsi all'Executive Education Program vertono sul rapporto fra l'evoluzione della scienza e della tecnologia e lo sviluppo economico, l'ambiente e la cultura. Attivista del movimento pacifista negli anni '60 e '70, ha fondato nel 1969 la Citizens Commission per denunciare i crimini di guerra americani nella guerra del Vietnam. È il fondatore e presidente della Foundation on Economic Trends (FOET) e presidente della Greenhouse Crisis Foundation.Fra i suoi libri tradotti in italiano: La fine del lavoro (1995) che ha rivoluzionato l'idea di lavoro gettando le basi per molte delle teorie contemporanee, Il secolo biotech (1998), Entropia (1982), L'era dell'accesso...

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