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Anno edizione: 2018
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Credo che il testo tradisca il suo autore dove gli fa dire, a meno che io non lo abbia inteso male, che quanto scritto da B. Pasternak prima del Dottor Zivago sia “inautentico”. Pensiamo con quanta abilita’ B. Pasternak condusse la partita che avrebbe portato alla pubblicazione del suo romanzo sulle due direttrici Italia / Francia e non solo su quelle di vero / falso delle lettere a Giangiacomo Feltrinelli (v. Il saggio di P. Mancosu, citato in “postilla”). Tale abilità autorizza a ipotizzare che il poeta russo abbia dimostrato con la sua vita e tutta la sua opera che si può farla anche alla peggiore dittatura, a condizione di essere molto intelligenti e non derogare mai alla prudenza, come in una partita a scacchi ben giocata. Tutt’altro che viltà.
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Se non fosse stato per Olga – la sua Olga-Lara sempre lì, pronta ad ispirarlo e a pagare, al suo posto e persino dopo la sua morte, il prezzo più alto possibile – e se non fosse stato per quel «message in a bottle» lanciato oltrecortina, se ne sarebbe andato, poco più che settantenne, lasciando ai posteri l’ingrato compito di decidere se ricordarlo più come sommo poeta e scrittore o come uomo comodamente adagiato su quel suo «stato permanente di doppiezza un po’ cinica», disposto a essere umiliato persino da uno Stalin-moralizzatore (pensa un po’!) in una gelida telefonata notturna. Per fortuna – nell’ordine: sua, nostra e della letteratura mondiale – qualche anno prima Živago, il suo doppio, gli aveva offerto su un piatto (che di argento non aveva nemmeno un’oncia), una insperata possibilità di riscatto e Pasternak, «l’intoccabile, perché sapeva destreggiarsi con maestria e prudenza in quell’epoca di ferro e di fuoco» questa volta non aveva cincischiato. Da tempo maturava, infatti, la convinzione che quel dannato scontro frontale con il regime era l’altissimo tributo da pagare, pur di scrivere, finalmente, qualcosa di vero e dare, così, una risposta a quel desiderio di redenzione che non gli dava requie. L’unica cosa da fare era dare ascolto all’ispirazione e a quelle idee che, come quelle dello zio del suo protagonista, erano «già definite», anche se «nessuno dei suoi libri, che lo avrebbero reso celebre era stato ancora scritto».
In questo suo ultimo lavoro, edito da La Nave di Teseo, intitolato Il senso di colpa del dottor Živago (94 pagine, 8 euro), Pierluigi Battista ricompone con meticolosa attenzione, mettendoci del suo, i non sempre facili momenti pubblici e privati di quel percorso interiore e non, che accompagnò Boris Pasternak nell’ultima parte della sua vita e nel corso della tormentata, quanto decisa pubblicazione del suo capolavoro, poi trasposto anche nello splendido film di David Lean del 1965. Per farlo, l’autore affida a un’esposizione, che a dispetto degli argomenti non smette mai di essere piacevole, il compito di raccontare fatti «tutti, nessuno escluso, desunti da memorie, lettere, ricordi, testimonianze, ritratti biografici e autobiografici a cui ho voluto dare una coerenza narrativa, e soprattutto una personale ma non arbitraria interpretazione».
Elementi – molti dei quali inediti o, in ogni caso, sconosciuti ai più – dai quali emerge, per esempio, con forza, la figura di Olga Ivinskaja, la donna che per Pasternak fu amante, amica, musa ispiratrice e complice e alla quale Battista dedica, con merito, una cospicua parte del libro. E anche se numerose e talvolta importanti sono le personalità che animano questa sorta di sciarada intellettuale e amorosa, è, mi pare, Olga, e sempre Olga, l’origine e la fine di questa storia, che è quella di un uomo ben dotato di debolezze, che alle fine ebbe comunque il merito di attraversarlo, quel suo Rubicone personale. Oggetto di attacchi e scherni da parte degli intellettuali più intransigenti – che lo giudicavano «docile e accondiscendente» o, più amorevolmente «debole e codardo», per usare le parole al vetriolo di Marina Cvetaeva – Pasternak aveva, infatti, deciso di dare finalmente ascolto a quel senso di colpa che da tempo lo opprimeva e si era presentato, puntuale e determinato come non mai, con il suo manoscritto, «all’appuntamento con la verità che aveva sempre rimandato».
Così, quando nel maggio del ’60 la signora con la falce lo venne a prendere nel suo ritiro di Peredelkino, furono la scrittura di Živago e, con essa, il salto nel vuoto che ne aveva reso possibile la pubblicazione, a fare da contraltare ai suoi tanti, inaccettabili, errori, ai suoi colpevoli silenzi, alla lunga coabitazione con il tiranno, per avere, in cambio, «onori, fama, pubblicazioni, favori». È vero, erano passati solo tre anni, da quando Jurij e Lara avevano sfidato con Feltrinelli la nomenclatura, non solo sovietica, per diventare, finalmente, eterni e nel frattempo c’erano di nuovo da considerare, oltre ad un premio Nobel mai ritirato (per codardia, dirà Aleksandr Solženicyn) anche un’umiliante autocritica sulla “Pravda”. Ma Pasternak non era più – come uno degli «uomini-pecora» di Firth of Fifth dei Genesis – il letterato ubbidiente che pur avendo visto tante volte la via di fuga, rimane all’interno del recinto, fino a quando non lo ordina il padrone-pastore. Come ricostruito da Pierluigi Battista, era stato proprio quel «sentimento felice ed euforico di calma e di giustizia interiore» ad abbattere lo steccato, a proiettarlo lontano «dall’inautentico, dal falso, dal compromissorio, dalla mancanza di coraggio» e a mettergli in mano la penna per scrivere Il dottor Živago. Ad avercene e a provarne, di sentimenti così.
Recensione di Camillo Scaduto
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