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2
1984
1 gennaio 1997
XVIII-463 p., ill.
9788806569525

Voce della critica


recensione di Caracciolo, A., L'Indice 1984, n. 1

Se oggi dobbiamo dire a qualcuno dove cercare un'opera aggiornata e d'insieme sul Settecento italiano, indichiamo senz'altro quella di Franco Venturi, ora praticamente compiuta in quanto si è pubblicato anche il primo tomo del suo quarto ed ultimo volume. A quindici anni dall'uscita del volume primo, che prendeva le mosse dall' Italia del 1730-40, l'autore è arrivato così alla vigilia del grande tornante della Rivoluzione francese, di cui già si avvertono qui - e si studiano e si collegano - una quantità di segnali premonitori e di inquietudini.
Il discorso di Venturi segue luoghi e terreni dove quei segnali si insinuano e si manifestano con più evidenza, al di là del quadro storico italiano da cui è partito. E ciò perché i centri nevralgici in questa fase storica stanno spesso lontano, nelle grandi potenze marittime e nelle periferie, a cominciare dalle colonie britanniche in cui si consuma la rivoluzione americana. L'unificazione del mondo ha fatto gran passi, e una rivolta di Pasquale Paoli o una sfida di Pugacev (o un thé di Boston) rimbalzano ben al di là della Corsica dei montanari o della Russia dei cosacchi: quello dei philosophes e dei politici è un mondo così cosmopolita ed un protagonista così qualificato da riuscire sensibile in tutta la sua estensione alle novità, conflitti, vicende che in questo o quel punto si manifestano. Se oggi altri storici, come da ultimo Wallerstein, riprendono il discorso sulla "mondializzazione" di quell'età piuttosto in chiave economica, tecnologica, di mercati, Venturi fa brillantemente lo stesso, in queste pagine come altrove, in chiave di mondializzazione del ceto intellettuale e soprattutto dell'ambiente riformatore e novatore. Egli crede, e lo afferma subito, che anche la Rivoluzione francese dev'essere "inclusa in un processo generale...: (il declino e la caduta dell'Antico Regime, dall'America alla Russia" ).
L'autore è uno dei pochi che possiedano oggi su questa materia le qualità per una critica di così ampio respiro. Il cosmopolitismo degli illuministi egli lo ha fatto proprio. Fra l'altro, quasi programmaticamente egli si è impadronito delle lingue necessarie per analizzare meglio specifiche situazioni, come la russa o la spagnola. Ha sfogliato una quantità immensa di periodici, di trattati, di pamphlets spesso rari (non dimentico l'impressione che mi fece già vari anni fa la sua biblioteca piena di originali o riproduzioni di fogli rari, magari scandinavi o portoghesi, oppure l'incontro con lui in cerca insaziata di dimenticate effemeridi e gazzette nelle biblioteche minori delle Marche). Il libro è in larga misura una parata di voci e una proposizione di pagine dove protagonisti noti o oscuri si confrontano con l'amplificazione delle "Notizie del mondo", secondo il titolo di ben noti periodici di Firenze e Venezia. Forse lo è anche troppo, e il gusto di far parlare le fonti e non perder nulla può far superare le proporzioni: ma se il discorso qua e là perde di compattezza, ne guadagna la ricchezza dei riferimenti e dei rimandi.
Venturi ritorna poi sempre all'ltalia come al nodo intorno a cui riallacciare tutti i fili. Tanti anni fa egli era partito dal chiedersi in che misura l'area italiana avesse camminato di consena con la "circolazione delle idee" nel gran mondo dei lumi: in discreta polemica con i vessilliferi di un precoce Risorgimento nazionale, egli aveva disegnato la seconda metà del secolo con la sua lunga pace nella penisola come l'epoca del recupero di un discorso proprio e maturo della cultura politica italiana, nel quadro di un suo rientro non subalterno nel circuito europeo. Adesso, nell'opera ulteriore, tale analisi trova conferma, mostrandoci il modo un po' partecipe e un po' attonito in cui gli osservatori di lingua italiana seguirono, dopo un paio di generazioni da Acquisgrana, gli stimoli sommersi che minavano nei suoi luoghi più potenti l'ancien regime.
Durante i secondi anni Settanta del XVIII secolo, trattati da questo volume, nei luoghi delle maggiori e più caleidoscopiche inquietudini novatrici si determinarono vere e proprie esplosioni: in primo luogo la rottura delle colonie inglesi con la madrepatria. Venturi sottolinea la peculiarità della Dichiarazione d'indipendenza americana e di tutta quella "ignota realtà" che si sarebbe incarnata nel 1787 in una stabile carta costituzionale: solo più tardi gli europei avrebbero - per analogie o per differenza - riflettuto a fondo sui termini e sulle proposizioni che l'evento, vissuto dapprima più che altro come occasione per un nuovo scontro fra le potenze classiche del "sistema" di equilibrio, portava con sé. Le quali avevano un profilo di libertas diversa da tutte le libertates fin qui difese o rivendicate nel vecchio mondo.
Fra queste ultime libertà c'erano non solo quelle repubblicane d'Olanda, di Svizzera o di Venezia, di cui Venturi si occuperà nel prossimo tomo, ma anche quella di una Gran Bretagna impegnata intorno al fatale 1776 a percorrere un suo sentiero vitale: stretta fra ribelli delle colonie, contestatori radicali, autocrati di corte, ma pur dotata dei due gran motori di un'opinione pubblica moderna e di una nascente moderna industria. Una libertà che dall'ltalia si vedeva con sgomento non valere per i cattolici, se questi in Inghilterra oltre che nella sfortunata Irlanda si trovavano perseguitati: ma comunque in terre britanniche c'era un sistema di valori e istituzioni atto a contenere sempre, anche durante i torbidi primi anni '80, ogni pericolo di rivoluzione.
Il libro di Venturi fa spazio notevole anche alla storia delle monarchie iberiche fra l'inizio del governo di Floridablanca a Madrid e la scomparsa di Giuseppe I e di Pombal a Lisbona. In questo Mezzogiorno d'Europa correva tempo più di restaurazioni che di lumi. Dal natio Portogallo sarebbe venuta a Napoli a tentare novità la coraggiosa Eleonora De Fonseca, e pure da lì sarebbe venuto a Torino a proporre le sue polemiche il dinamico Rodrigo de Souza Coutinho.
Intanto le gazzette italiane commentavano le rivolte antispagnole nel Perù e nella Plata senza riuscire a coglierne il senso.
Quel che comunque non sfuggiva era la tendenza reazionaria e clericale dominante nell'area iberica. Sicché per esempio la "Gazzetta Universale" molto esplicitamente poteva, nel 1788, "fare un parallelo tra i progressi che finalmente stava compiendo in Francia l'area di tolleranza e gli inutili tentativi in proposito al di là dei Pirenei".
Anche in Francia quel 1776 aveva portato una novità ben grossa, come la caduta di Turgot. Cominciava l'era faticosa di Necker, banchiere paternalista, populista, centralizzatore: quando uscì il suo "Ragguaglio" al re sullo stato delle finanze, anche i circoli italiani rimasero emozionati, come di cosa che accadendo a Parigi coinvolgeva inevitabilmente le vicende cisalpine. E non diversamente nel 1778 avvertirono come cosa propria la scomparsa, nel giro di poche settimane, di Voltaire e di Rousseau. I più reputati giornali seguivano ora lo sforzo di progettualità e di riforma di un Diderot e di un Raynal, dei Linguet, Marat, Mirabeau: erano attratti dagli sforzi di un J.P. Brissot e del suo "Courier de l'Europe" verso un raccordo cosmopolita fra culture, scienze, stampa, polifica di cambiamento. Una nuova generazione di riformatori, di studiosi, di spiriti inquieti teneva d'occhio, dall'ltalia, il fuoco covante a Parigi sotto la cenere. È questa attenzione, questa partecipazione, che Franco Venturi ha colto nella sua opera con fine gusto per tante sottili varietà e sfumature.

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