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Una signora perduta - Willa Cather - copertina
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Una signora perduta
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Una signora perduta - Willa Cather - copertina

Descrizione


La «signora perduta» che sta al centro di questo romanzo vive nel vecchio West. È bellissima, nobile, affascina tutti. La vediamo attraverso gli occhi adoranti di un ragazzo che nulla ama al mondo quanto farle visita. Ma la «signora perduta» cela in sé un’attrazione per qualcosa che sta tra il losco e il sordido, una sorta di perverso desiderio di degradazione.

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Dettagli

1998
Tascabile
8 aprile 1998
140 p.
9788845913686

Valutazioni e recensioni

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Recensioni: 2/5
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lina
Recensioni: 3/5

non c'è molto della psicologia della protagonista in questo romanzo raccontato dal punto di vista del suo giovane "ammiratore". però la storia merita. anche una trasposizione cinematografica.

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Anna Lucia
Recensioni: 1/5

Mi ha attirato il titolo ma speravo in meglio. In fondo non è un gran chè ed è pure noiosetto.

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Recensioni

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Voce della critica


(recensione pubblicata per l'edizione del 1990)
recensione di Rognoni, F., L'Indice 1991, n. 2

Qualche giorno prima che "Il grande Gatsby" venisse pubblicato (10 aprile 1925), Francis Scott Fitzgerald scrisse a Willa Cather (1873-1947) una curiosa lettera. Si dichiarava suo grande ammiratore e proprio perciò voleva subito, e di persona, segnalarle un caso di "apparente plagio": leggendo "Una signora perduta" (1923) s'era infatti imbattuto in frasi che rappresentavano, quasi con identiche parole, un'idea di fascino femminile assai simile a quella che lui stesso aveva concepito fin nei primi abbozzi di "Gatsby", e che neanche nella versione definitiva s'era sentito di eliminare. "La sua voce", scrive Fitzgerald nel romanzo a proposito di Daisy, "era un invito modulato, un 'Ascoltami' bisbigliato, che prometteva per l'ora seguente cose gaie e interessanti come quelle vissute un minuto prima" (trad. di Fernanda Pivano); mentre Neil Herbert, il giovane e partecipe testimone delle vicende della "signora perduta", ricorda che "quando [gli occhi di Marian] fissavano i suoi per un istante, parevano promettergli una gioia ineffabile che nella vita lui non aveva trovato. 'Io so dov'è', sembravano dire 'potrei mostrartela!"' (p. 137).
La somiglianza è innegabile (e ben più eclatante in un paio di altri passi, oltre che a livello più generalmente strutturale); eppure la Cather di certo era sincera quando, rispondendo al più giovane autore, gli assicurò di aver letto "Il grande Gatsby" ancor prima di ricevere la sua lettera, apprezzandolo molto, e senza venir disturbata da alcuni déjà-vu. Intrinsecamente, infatti, i due libri sono diversissimi (ed è perciò che Fitzgerald rappresenta un'epoca, la cosiddetta "età del jazz", mentre l'opera catheriana è semmai emblematica di un luogo, o di certi luoghi): l'urgenza, l'isterica, innaturale accelerazione che pervade le pagine fitzgeraldiane, è del tutto assente da quelle della Cather. Bastano, a rendersene conto, le poche righe sopra citate: nella voce di Daisy è l'imminenza di cose eccitanti (nel libro intero, l'angoscioso presagio d'una catastrofe, personale e di tutta la nazione); invece gli occhi di Marian sanno (sapevano) d'una gioia nascosta, sempre altrove immanente. I due romanzi raccontano sì storie simili, e con comparabili felicità stilistiche, n‚ differiscono nel giudizio sulla storia (per entrambi, i tempi andati erano migliori). Diverso è il tono, quel che la Cather chiamava 'verbal mood' ('aura', talvolta, o 'spirit'), e in cui ella vedeva l'ineffabile essenza d'ogni autentica opera d'arte: i tocchi fitzgeraldiani sono rubati alla corsa dei giorni, 'à bout de souffle'; il disegno della Cather è come guidato dalle stagioni, dal tempo d'un paesaggio.
In un imprecisato stato del Midwest, nella cittadina dal simbolico nome di Sweet Water, trascorrono l'estate (e dopo una bancarotta, si trasferiranno definitivamente) l'anziano, integerrimo capitano Forrester e la sua ben più giovane moglie. Sono gli ultimi decenni del secolo, e l'epoca dei pionieri-uomini, come il capitano, per cui "una cosa sognata nella maniera che io intendo, è già di per sé un fatto compiuto" (p. 48) - volge al tramonto. Il futuro è in mano ad affaristi senza scrupoli come Ivy Peters, avvocatucolo arricchitosi ingannando gli indiani, e pronto, meno per soldi che per dispetto, a prosciugare gli acquitrinosi pascoli che i Forrester lasciavano improduttivi a causa della loro grande bellezza: insomma, l'edera ('ivy') soffoca i nobili alberi della foresta (non irriti il gioco un po' ovvio dei nomi: il romanzo americano ha un debole per l'allegoria, e poi "Una signora perduta" appartiene a un genere, la pastorale, altamente stilizzato).
Marian Forrester però non è "disposta ad immolarsi e a morire assieme all'epoca cui apparteneva, [preferisce] la vita a qualsiasi condizione" (p. 136): senz'ombra di bovarismo (semmai con l'energia della Hester Prynne di Hawthorne), commette adulterio e, da vedova, non disdegna neppure l'odiosissimo Ivy Peters. A questo triste, forse fatale degrado assiste Neil Herbert, giovinetto leale ai nobili valori del capitano, castamente infatuato di Marian, ma appassionato lettore delle "Heroides" di Ovidio (e quindi potenziale voyeur). Neil è un jamesiano "centro di coscienza", e inevitabilmente il racconto diviene un po' anche il suo 'Bildungsroman'. Però, sia chiaro, la Cather non è autrice d'avventure ermeneutiche, di vite vicarie: la figura centrale resta Marian, la "signora perduta" - 'femme perdue'? forse; ma allora perché ancora una "signora"? piuttosto "una signora perduta di vista" o nella memoria e, soprattutto (l'espressione inglese a 'lost woman' è molto più duttile della sua traduzione) "una signora sperduta", disorientata. Ritroverà l'orientamento? Tutto a partire dall'epigrafe shakespeariana (le ultime parole di Ofelia prima del suicidio), suggerirebbe una risposta negativa. Ma il finale, pur nella sua perfetta plausibilità, è davvero sorprendente; meglio non rivelarlo e ricordare invece le ammirate osservazioni di un'altra scrittrice, Eudora Welty: "quella della Cather non è mai un'ironia che sminuisce i personaggi...; che straordinaria lezione ci dà "Una signora perduta", la lezione che l'amarezza può essere evitata".
Speriamo che questa riproposta Adelphi (il romanzo era già apparso, assieme ad altre novelle, nell'Omnibus mondadoriano "Oscuri destini", 1956) riporti in auge anche in Italia una figura importante del Novecento americano (ne fa fede, fra l'altro, la sua recente inclusione nella prestigiosa "Library of America", "La Pléiade" statunitense). "Una signora perduta" è, come vuole il risvolto di copertina, l'opera più perfetta della Cather, ma solo se si concede che la perfezione non è necessariamente la più grande virtù d'un romanzo. E infatti la Cather coniuga, a una flaubertiana passione per il 'mot juste', un'avventurosità formale che è tutta americana, e sfiora l'incuranza. A proposito di "La mia Antonia" (1918; La Tartaruga, 1985), dichiarò che "se mi dessero mille dollari per ogni errore di struttura... mi farebbero ricca. So che ci sono, li ho fatti consciamente... Talvolta troppa simmetria uccide le cose".
"La mia Antonia" è generalmente considerato il suo capolavoro; personalmente prediligo "La morte viene per l'arcivescovo" (1927; Mondadori, 1936, fugacemente riapparso nella già defunta "Medusa Serie '80"). "Ombre sulla roccia" (1931; Ipl, 1968, ancora in catalogo) è opera un po' pallida, come una lunga, scolorita nota a "La morte viene per l'arcivescovo". Ma assolutamente da ristampare (certo ricontrollandone le traduzioni) sono, assieme a quest'ultimo romanzo, "La casa del professore" (1925; Mondadori, 1951), finissimo ritratto psicologico, e uno dei primi esempi dell'ormai troppo diffuso 'campus novel'; e "Il mio nemico mortale" (1926; Mondadori, 1946), versione scarnificata, ben più cupa eppure ancora miracolosamente immune dall'amarezza, di "Una signora perduta". Possiamo invece fare a meno di "Uno dei nostri" (1922; Mondadori, 1955), che le valse il premio Pulitzer, ma fu scritto un po' per dovere (è il suo libro sulla Grande Guerra). E lo stesso vale per i mai tradotti "Alexander's Bridge" (1912) e "The Songs of the Lark" (1915) che la Cather sconfessò; e per i suoi ultimi stanchi romanzi, "Lucy Gayheart" (1935) e "Sapphira and the Slave Girl" (1940). Se si ristampa "Il gelso bianco" (1913, trad. it. 1956), gli si restituisca il titolo originale, "O Pioneers!" ("Quando Whitman ha detto 'Oh Pionieri', ha detto tutto", osservò Fitzgerald!)
Nei suoi quattro volumi di racconti (da noi per lo più inediti) vi sono cose bellissime; però, se si vuoi tradurre ex novo, darei assolutamente la precedenza a "Not Under Forty" (1936), affascinante libretto di saggi, che, come recita l'improbabile nota prefatoria, "saranno di poco interesse alla gente che abbia meno di quarant'anni". Vi si raccolgono scritti sulla Jewett, Thomas Mann, la Mansfield, e memorie di incontri con Madame Franklin-Grout (la "Caro" delle flaubertiane "Lettres à sa nièce Caroline") e con Annie Adams Fields vedova dell'editore di Hawthorne Emerson e altri autori del "rinascimento americano" (ed altra "signora perduta" nel tempo: "Possedeva il genio della sopravvivenza. Una volta, ridendo, mi disse che era destinata 'a non farsi sfuggire niente neanche il verso libero o i Cubisti"'). E vi è compreso il celebre saggio "The novel Démeublé" (1922), eloquente invito a un romanzo di più che jamesiana selettività, sgombro non solo dei pesanti arredamenti balzachiani, ma anche d'ogni eccesso psicologistico: e non è, "Una signora perduta", un ottocentesco romanzo d'adulterio "sgombrato" d'ogni implicazione morale?
Con l'aggiunta degli scritti su Stephen Crane e su Defoe, e d'alcune brevi, illuminanti pagine di autocommento, l'edizione italiana di "Not Under Forty" costituirebbe una preziosa "arte del romanzo", che non sfigurerebbe accanto ai saggi di James e della Woolf. E, discorrendo quasi solo di letteratura, indirettamente testimonierebbe anche d'un epoca con cui la Cather cercò d'avere il meno commercio possibile, dato che "verso il 1922 o giù di li, il mondo s'era spaccato in due" e i ricordi di lei appartenevano ai "settemila anni di ieri" (una retorica esattamente opposta si ritrova negli appena ripubblicati saggi di Fitzgerald ["L'età del jazz", Mondadori, "Crepuscolo di un scrittore", SE], ove la parola chiave è, ossessivamente, "generazione"). Così non sorprende che uno dei pittori favoriti della Cather fosse quel Puvis de Chavannes che, fra gli impressionisti quasi suoi contemporanei, appare come un indefinibile anacronismo (mentre Long Island, in "Gatsby", assume la 'quality of distorsion' propria degli "espressionistici" notturni di El Greco). V'è insomma qualcosa di ricercatamente obsoleto nell'opera catheriana, una consapevole "non-modernità", nella quale lei stessa avrebbe indicato il proprio limite - però aggiungendo, come scrisse a proposito dell'adorato Flaubert, che "i limiti di un artista sono importanti quanto le sue forze: sono un preciso patrimonio, non una deficienza, e contribuiscono a formare la sua qualità, la sua personalità, la cosa per cui l'orecchio immediatamente riconosce Flaubert, Stendhal, Mérimée, Thomas Hardy, Conrad Brahms, César Franck".

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Willa Cather

(Winchester, Virginia, 1873 - New York 1947) scrittrice statunitense. Cresciuta nel Nebraska a contatto con il mondo degli immigrati cechi e scandinavi, descrisse nei romanzi O pionieri! (O pioneers!, 1913), La mia Antonia (My Antonia, 1918), e nei racconti di Uno dei nostri (One of ours, 1922), la vita di frontiera, il conflitto tra uomo e ambiente, scandito dalla solennità dei cicli stagionali. Veri aristocratici della prateria, i suoi pionieri, uomini e donne, si dibattono tra le memorie culturali del passato europeo e le necessità della sopravvivenza. Ma la definizione di scrittrice regionalista non esaurisce la complessità della sua visione e delle sue tecniche, affinate dalla lettura di H. James, di G. Flaubert, di Sara O. Jewett. La crescente consapevolezza artistica della C. è documentata...

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