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Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust - Mario Lavagetto - copertina
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Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust - Mario Lavagetto - copertina
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1991
1 gennaio 1997
141 p.
9788806123727

Voce della critica


recensione di Bertini, M., L'Indice 1991, n. 6

Tra la fine del 1912 e gli inizi del 1913 uno spettro si aggirava per le case editrici parigine: un dattiloscritto di ben settecentododici fittissime pagine, tempestato di correzioni e aggiunte che non contribuivano certo a renderlo più accattivante. Il titolo era "Le Temps Perdu". L'autore, Marcel Proust, aveva pubblicato articoli su quotidiani e riviste, un paio di traduzioni e un dimenticato libro di racconti; in una cortese e prolissa lettera di accompagnamento spiegava che si trattava soltanto della prima metà di un'opera - purtroppo alquanto "indecente" - che si sarebbe intitolata, nell'insieme, "Les intermittences du coe£r". Era, in una forma incompleta e provvisoria, il futuro "Alla ricerca del tempo perduto". Uno dei primi lettori di professione chiamati a cimentarsi con quella massa di pagine così poco invitante fu Jacques Normand, collaboratore dell'editore Fasquelle. Normand era - sotto lo pseudonimo Jacques Madeleine - un poeta e un critico teatrale di gusti alquanto convenzionali; si trovò "sommerso" in un garbuglio di episodi e digressioni senza capo n‚ coda, che gli parve "un caso patologico nettamente caratterizzato". Nell'assolvere coscienziosamente al suo compito, lesse non soltanto il dattiloscritto, ma anche la lettera di accompagnamento: vi si annunciava che il personaggio centrale della seconda parte dell'opera sarebbe stato un certo barone di Fleurus, "pederasta virile", e che lo si sarebbe visto sedurre "un portinaio e un pianista". Queste inquietanti anticipazioni non misero in allarme in Normand il moralista, l'uomo d'ordine, ma il fautore di un'estetica del romanzo fondata sul rigore, sulla chiarezza, sull'armonia classica delle proporzioni. La maggior parte delle pagine che gli erano state sottoposte, osservò, costituivano una sorta di interminabile "monografia" su un ragazzino ipersensibile che non riusciva a prender sonno senza il bacio della mamma. Si poneva a questo punto una domanda ineludibile: quel ragazzino analizzato tanto esaurientemente era destinato, in seguito, ad essere coinvolto nell'anomala vita amorosa del barone di Fleurus? "Nella monografia - annotò Normand - nulla sembra indicarlo, e la lettera parla soltanto di un portinaio e di un pianista. Se il ragazzina non diventa un invertito, a che serve tutta la monografia? Se invece lo diventa - e dobbiamo sperarlo per amor della logica - allora la monografia ha una ragion d'essere, ma c'è pur sempre un'inimmaginabile sproporzione".
Jacques Normand non è ricordato, in genere, dai proustiani come un esempio di perspicacia, n‚, tanto meno, di spregiudicatezza; eppure, nelle righe che abbiamo riportato, si avvicina, con spericolata innocenza, a un punto nevralgico del romanzo proustiano, su cui ben di rado l'attenzione della critica si è soffermata se non per cercare dubbie fonti biografiche, tra aneddoti spuri e testimonianze tardive. È intorno a questo punto nevralgico - il rapporto tra l'eroe della "Recherche" e il mondo dell'omosessualità - che Mario Lavagetto ha organizzato, nel suo recente volume, l'analisi, serrata e avvincente, di alcuni testi proustiani fondamentali: dal saggio giovanile su "La poesia e le leggi misteriose" alle scene di omosessualità della "Recherche" e ai racconti dei "Piaceri e i giorni" che le anticipano, sino alle riflessioni su quella "grande ossatura inconscia" dell'opera d'arte che è, secondo Proust, lo stile. Da questa lettura emergono, in una luce del tutto nuova, le strategie narrative di Proust, il suo uso della prima persona, la sua stessa visione dei problemi del romanzo e della conoscenza.
Come aveva presentito, nella sua ingenuità da Urone di Voltaire Jacques Normand, un'aporia fondamentale attraversa quella vasta narrazione in prima persona che è la "Recherche": la voce del narratore sottolinea, senza possibilità di equivoco, che l'eroe, il protagonista - cioè lui stesso nella prima parte della sua vita - , è del tutto estraneo a quel mondo dei sodomiti e delle discendenti di Gomorra con cui il caso, con strana pervicacia, insiste a metterlo in contatto. È per puro caso che egli assiste, adolescente, agli amori di mademoiselle Vinteuil e della sua amica, complicati da un sadico rituale profanatorio, ed è ancora il caso a permettergli di osservare il cerimoniale di seduzione del maturo barone di Charlus nei confronti del portinaio Jupien. Un ultimo caso, più romanzesco degli altri, lo guida, attraverso una tenebrosa Parigi minacciata dalle bombe, sino all'albergo-bordello di Jupien dove assisterà non visto, attraverso un provvidenziale "occhio di bue", alla manifestazione più estrema della perversione del barone: incatenato, si fa insultare e flagellare da un volenteroso giovanotto che recita senza troppa convinzione il suo ruolo di carnefice sadiano. Reduce da quest'ultima scena l'eroe riepiloga gli avvenimenti della sua notte avventurosa: è a questo punto che un lapsus dell'autore - quello rievocato nel titolo del saggio di Lavagetto - gli fa collocare il letto di ferro in cui si svolge il supplizio del barone, anziché in quella di costui (la 14 bis), nella propria stanza, nella stanza che ha lui stesso occupato, la numero 43.
In tutte le situazioni che abbiamo elencato l'eroe, il futuro narratore, è rigorosamente all'esterno della scena dell'omosessualità: Proust non arretra davanti ad alcuna infrazione del codice della verosimiglianza pur di garantirgli la situazione, confortevole e per nulla compromettente, dello spettatore, dell'osservatore non coinvolto. E tuttavia, l'estraneità del protagonista rispetto alla scena dell'omosessualità, e al sapere tutto particolare che posseggono i discendenti di Sodoma e che li accomuna, è continuamente contraddetta nel testo della "Recherche": il lapsus che Lavagetto privilegia facendone una sorta di scioglimento narrativo del suo discorso, non è che uno dei mille indizi che ci confermano come, nella sua ribadita innocenza, il protagonista della "Recherche" sappia davvero troppo, veda troppo, sia oggetto di confidenze troppo intime e testimone privilegiato di vicende troppo strane. Questa aporia - che Lavagetto insegue nelle varie forme in cui i testi la dissimulano - mina alla base tutte le interpretazioni volte a trasformare la "Recherche" in un edificio d'imperitura perfezione, eretto per sfidare la caducità in nome delle superiori ragioni dello spirito e dell'arte; la caducità, insediatasi all'interno del progetto romanzesco, lo erode con le armi della contraddizione e dell'assurdo, ne smaglia la compattezza, ne intacca la fittizia monumentalità, per restituirlo, più fragile ma più prossimo al vero, all'accidentata pluralità del reale.

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Conosci l'autore

Mario Lavagetto

(Parma 1939) critico italiano. Allievo di G. Debenedetti, si è particolarmente interessato all’impiego di metodologie psicoanalitiche nella critica letteraria. Tra i suoi studi: La gallina di Saba (1974), L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo (1975 e ’86), Freud, la letteratura e altro (1985), Stanza 43. Un lapsus di Marcel Proust (1991), La cicatrice di Montaigne: sulla bugia in letteratura (1992), La macchina dell’errore (1996), Dovuto a Calvino (2001), Lavorare con piccoli indizi (2003), Eutanasia della critica (2005), Quel Marcel! Frammenti dalla biografia di Proust (2011), premio Viareggio. Ha proposto inoltre una sagace analisi di libretti verdiani nei saggi Quei più modesti romanzi (1979), Un caso di censura: «Il Rigoletto» (1979), sulla metamorfosi di un libretto esemplare, e...

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