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"Tutto è interpretazione 'disegno' o non è nulla", scrive Giorgio Ficara nel saggio dedicato a Gadda, il quale dei Promessi sposi rileva la tensione tragica su cui poggia l'architettura manzoniana, su ciò che "ogni narratore, in quanto eminentemente ed elettivamente interprete, deve desumere dal 'morto corpo della realtà'". Interpretazione e disegno sono quindi concetti interrelati e speculari, luoghi principi dell'esercizio del pensiero, dell'attività speculativa e della riflessione sulla storia, che soli consentono di cogliere dietro lo schermo opaco della realtà disgregata e contraddittoria quel "quid più vero", nel quale risiede il principio fondativo della creazione letteraria e che rappresentano il carattere distintivo e peculiare della letteratura del secolo scorso.
Da questo binomio procedono i fili ermeneutici dei saggi che Ficara ha raccolto in Stile Novecento, adattandoli con duttile intelligenza di lettura alle molteplici variazioni che di essi la letteratura novecentesca ha offerto in prosa in poesia nella critica, da D'Annunzio e Pirandello a Gadda Calvino Biamonti Magris, da Saba a Luzi Montale Conte, da Praz a Garboli a Getto, tra gli altri. Da questa prospettiva, quindi, Stile Novecento non è, né intende essere, un bilancio della crisi o una storia della letteratura del secolo scorso, bensì è un serrato e appassionato interrogarsi su come è stato interpretato e rappresentato quel "peso", quel "di più di teoricità" che il Novecento porta con sé, perché nota il critico nella premessa: "Solo nel Novecento, l'esitazione, il sì e il no, i non so di fronte alla catastrofe delle certezze sono (
) stile, e la fine o l'idea della fine della letteratura è (
) in sé, letteratura". Naturale allora che il libro affronti, nelle dense e affascinanti pagine di apertura, la cruciale e canonica aporia della letteratura novecentesca del personaggio, investito dal sentimento acuto e tragico dell'incepparsi della vita e del correlato incepparsi della rappresentazione, anticipati esemplarmente nel Fu Mattia Pascal.
Ma la componente fondamentale del romanzo è stata sempre oggetto di inesauste riflessioni attraverso le innumeri, spesso mirabili, metamorfosi che ha conosciuto nel contesto europeo dal Settecento a oggi. La sua cangiante e eclettica fisionomia, nata sotto il segno dell'esuberante pienezza vitale di Tom Jones giunge all'approdo desolato e problematico di Palomar, consapevole ormai della totale incongruenza di sé e del suo essere personaggio dimidiato che non sa né può sapere, ma che proprio in questa difficoltà di essere ha la sua ragione di esistere e che non abdica alla tensione verso "quel solo piccolo pensiero che può riempire tutta una vita". In una carrellata ampia e persuasiva che ruota attorno ai grandi prototipi romanzeschi, Ficara individua "il vantaggio obiettivo del romanzo moderno nel salto dall'esperienza del piacere (
) al bene della riflessione"; in questo senso, le esitazioni e le perplessità a esistere di Jacques il fatalista diventano, nell'ironica e straniante oscillazione tra rappresentazione e commento, il "gioco del sogno della conoscenza in Calvino".
Questo filo cardinale che congiunge riflessione storica, speculazione e attività creativa rende ragione inoltre dei ricorrenti riferimenti a Manzoni e a Leopardi, la cui feconda e attiva presenza nutre tante esperienze novecentesche, tra le quali Gadda, Sciascia, Saba e Calvino. E questo medesimo pensiero forte orienta le scelte del critico, che predilige gli autori drammaticamente scissi tra utopia e disincanto, Sciascia Calvino e Magris, tra gli altri, o gli scrittori appartati e in un certo senso inattuali, come Biamonti, al quale sono dedicate alcune tra le pagine più intense del volume. Altrettanto significativa, poi, la decisione di affiancare agli scrittori i grandi critici, quali Praz e Getto, Garboli e Arbasino, dei quali Ficara coglie la costante e vigile tensione volta a rivendicare con forza, al di là delle diverse scelte di campo, il valore assoluto e insostituibile di verità espresso dalla letteratura.
La stessa scrittura del critico poi, distesa ed elegante, asseconda e riflette il cammino dubitoso e problematico che conduce all'interpretazione. Il discorso di Ficara procede infatti per progressive approssimazioni e ombreggiature, attraverso figure di attenuazione e incisi che non offuscano la limpida profondità dell'analisi, al contrario restituiscono arricchita la complessità di pensiero e di invenzione del testo in oggetto, come testimonia egregiamente, ad esempio, il saggio su Arbasino. Lontanissimo, quindi, lo stile di Ficara dai modelli di linguaggio critico rigorosamente formalisti, le pagine di Stile Novecento rivelano una naturale attitudine alla scrittura narrativa, aprendosi talvolta a discreti e intensi squarci autobiografici intrecciati ai ritratti d'autore. Tali sono, ad esempio gli accenni al collegio gesuitico torinese nelle pagine assai belle su Soldati, o nell'apertura del saggio su Calvino la figura epica e silente dell'amico contadino Luigin Arata, che tra gli ulivi dell'amata Liguria attende paziente e inconsapevole a costruire il suo "edificio della ragione".
A fronte della scommessa di tanti intellettuali e scrittori tesi a faire chanter le idee secondo l'esortazione di Valéry, la sezione conclusiva di Stile Novecento descrive un paesaggio letterario ripiegato su se stesso e che, per il momento, non sembra essere attraversato dai tragici interrogativi che sono stati al centro delle più alte prove novecentesche; non potrebbe essere altrimenti nell'ottica di un critico strenuo assertore di una concezione della letteratura nutrita di pensiero e volta all'inesausta ricerca di stili e di linguaggi innovativi.
Elisabetta Soletti
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