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Storia del Pacifico. Vol. 1: Il lago spagnolo. - Oskar Hermann Khristian Spate - copertina
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Descrizione


Fino al 1513, anno in cui Nunez de Balboa scopre il “Mar del Sur”, e prima dell’epica, e tragica, spedizione di Magellano del 1519, sui planisferi europei il “Pacifico” non era che una steminata, vuota distesa senza nome. Va a merito dell’ammiraglio portoghese l’aver acceso quella scintilla che, in breve volgere di tempo, avrebbe trasformato il grande Oceano in un fitto intreccio di rapporti commerciali e strategici, fruttuosi fermenti culturali, devastanti conflitti di potere.Come sottolinea l’autore (direttore della Research School of Pacific Studies presso l’Australian National University) questa è una storia del Pacifico, e non già delle sue genti: l’obbiettivo è dunque quello di delineare una storia del “lago spagnolo” visto come entità a sé stante, un ‘continuum’ spazio-temporale in cui si muovono navigatori e mercanti, conquistadores e personaggi da leggenda, un crogiolo in cui ribollono interessi di ogni sorta e si forgiano nuove società. In primo piano campeggia, naturalmente, l’America latina, emanazione della madrepatria, che per sua natura divenne il fulcro per mezzo del quale, nella sua fase iniziale o iberica – l’Europa estese il proprio dominio nella metà opposta del globo. Vengono così ripercorse le fasi più importanti di un periodo, il XVI secolo, che non ha certamente paragoni con altri nel corso della storia: nel 1500 nessun occhio europeo aveva avuto modo di ammirare una spiaggia dell’Oceano, ed anche i suoi mari finitimi sin dai tempi di Marco Polo erano stati probabilmente solcati soltanto da un pugno di missionari. Cent’anni dopo i lineamenti generali delle Indie Occidentali e della costa cinese erano passabilmente definiti, gli scambi commerciali in Giappone erano attivi, e tra Manila e Acapulco correva una regolare linea di navigazione.Quanto all’Oceano vero e proprio, molte isole erano state avvistate, alcune visitate, compreso il grande arcipelago delle Salomone, e se pure le carte nautiche non erano ancora molto affidabili, per […]

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Dettagli

1987
1 gennaio 1997
XXVI-412 p.
9788806599225

Voce della critica


recensione di Marenco, F., L'Indice 1988, n. 5

Quella sterminata distesa di mare - un terzo dell'intero globo terracqueo - che, dopo Magellano, chiamiamo Oceano Pacifico, è tuttora la testimonianza lampante di quanto squilibrata e frammentaria resti la nostra conoscenza del mondo, e di quanto esposta essa sia all'attrazione di interessi e forze nient'affatto scientifiche. Non solo il Pacifico è stata l'ultima tessera importante del mosaico della scoperta europea - e sarà opportuno ricordare che non più di due secoli fa, fino alle tre grandi navigazioni di James Cook (1768-1780), i geografi vi disegnavano ancora, nella "pars australis nondum cognita", terre e anzi continenti del tutto immaginari, a eccitare le fantasie espansionistiche dei governanti europei; ma il Pacifico presenta ancora l'immagine schizofrenica di uno spazio percorso, come un tempo dalle navi di esploratori solitari in perpetuo sospetto reciproco, oggi da metodologie e saperi spesso estranei, mal conciliati, se non incompatibili l'uno con l'altro.
Due sono le discipline che hanno dominato quest'immagine, ognuna tirando dalla sua parte una coperta che con l'andar del tempo si è di ben poco ingrandita: la storia e l'antropologia. La loro scarsa intesa è derivata innanzitutto dalle diverse finalità che si proponevano. Fin dagli inizi, ovvero fin dai volumi propagandistici del francese de Brosses (1756) e dello scozzese Dalrymple (1767), la storia del Pacifico venne scritta come celebrazione della scoperta e delle sue prospettive imperialistiche, ovviamente relegando in un ambito del tutto primitivo, e come tale privo di storia, le genti che popolavano quel mare. Dal canto loro, e ancora dagli inizi, cioè dalle prime domande poste in nome di una scienza dell'uomo, gli antropologi hanno trovato nelle società del Pacifico un banco di prova per teorie nate, discusse e applicate nella società occidentale, raramente affrontando quelle società come vere totalità culturali: è tipico il caso dei 'philosophes' settecenteschi, ma non -meno quello del nostro quasi-contemporaneo Bronislaw Malinowski, che dai "selvaggi" malesiani ha ricavato la smentita dell'universalità, e quindi, suppongo, della fondatezza, del complesso epidico.
Non si sfugge così all'impressione che i nostri strumenti di conoscenza abbiano fatto recitare da primattori sulla scena del Pacifico delle semplici comparse, in un quadro incompleto e contraddittorio. Solo nel dopoguerra storici egregi come J. C. Beaglehole hanno saputo arricchire l'indagine su singoli segmenti di quella storia, come le imprese di Cook, con una messe vastissima di ricerche e verifiche sul campo; e solo recentissimamente antropologi valenti come Marshall Sahlins si sono sforzati di muovere dal punto più vistoso della realtà indigena, la sua risposta alla comparsa dei bianchi, verso il retroterra storico e culturale che le è proprio. È sintomatico che il titolo di un libro di Sahlins "Isole di storia", suoni a capovolgimento e rimprovero di duecento anni di erudizione celebrativa.
Questa ahimè lunga introduzione è utile, mi pare, per capire le dichiarazioni con cui Spate apre questo grosso volume. Il suo programma è di scrivere una "storia del Pacifico e non già delle genti del Pacifico" - ciò che la colloca immediatamente nel novero degli studi tradizionali; all'autore non manca tuttavia la coscienza che "l'evolversi delle cose richiederà la composizione di una nuova opera storica, per la quale già esistono gli elementi", ed egli ammette con onestà tutta anglosassone (immaginatevi uno storico francese, o italiano, che scrivesse due righe come queste): "non me ne sento però all'altezza e forse il mio lavoro apparirà un 'requiem' per un'era della storiografia che pur deve servire da base per quella di là da venire".
I primi capitoli confermano un'aria un po' consunta: si potrà pure raccontare bene la propria storia - e Spate la racconta benissimo - ma non ci sembra di aver bisogno, oggi, di un'ennesima rivisitazione del "mondo senza Pacifico", che poi è l'Europa con tutti i germogli imprenditoriali e scientifici che si sarebbero sviluppati nella pianta lussureggiante dell'espansione; n‚ del sentimento che deve aver gonfiato il petto di Balboa sul "picco del Darien" alla vista, la prima ad occhi europei, dell'immenso Mar del Sur; n‚ delle lotte intestine che decimarono gli spagnoli appena entrati in possesso del Perù e delle sue favolose miniere.
Non ci sembra di averne bisogno, si diceva, anche perché queste rivisitazioni, non avendo tracciati nuovi da percorrere e non essendo, almeno all'inizio, sufficientemente cementate dal motivo dell'emergenza del Pacifico come entità storica a sé, non possono poi, nella loro ricerca di un significato globale, che ricadere su vecchi schemi obbligati: l'associazione di coraggio e brama di ricchezze che sospinse i conquistatori, la personalità pittoresca di questo o quel condottiero, lo scandalo di fronte alle barbarie perpetrate ai danni delle popolazioni conquistate, o la difesa di tali barbarie in nome delle necessità della civilizzazione (sembrano grotteschi giochi di parole, ma c'è chi, come Menendoz Pidal, li ha fatti in tutta serietà); qui Spate cerca un equilibrio fra l'ovvio umanesimo della sua formazione, che lo porta a segnalare e a deprecare gli episodi più truci della tremenda crudeltà bianca, e l'assunto principale del suo studio, per cui "sino ai giorni nostri il Pacifico fu fondamentalmente una creazione euro-americana". Così non può mancare la conclusione che "a fianco della devastazione vi fu l'edificazione, la 'mis-en-valerur', come parte integrante dell'economia mondiale, di grandi continenti". Con buona pace dei milioni di uomini (fra cinque e nove) che ci rimisero - la pelle in primo luogo, e poi la "loro" memoria.
Questa prospettiva non viene sostanzialmente mutata nel capitolo in cui "entra in scena e domina" la Spagna, creando faticosamente, l'una dopo l'altra, le stazioni minerarie e i porti della costa, dalla California allo stretto di Magellano. Ma comincia a cambiare con i viaggi alle Molucche dei successori del navigatore portoghese, e con quelli di Mendaña e Quiros alla volta della "Terra Australe": non perché la trattazione tocchi argomenti nuovi, ma perché comincia a precisarsi il senso di un oceano come entità reale, come soggetto storico con problemi peculiari - il sistema dei venti, la possibilità che vi esista un continente grande quanto l'Europa, i caratteri delle civiltà che lo popolano e lo circondano, le linee di traffico che lo sfiorano prima, e invadono poi.
I capitoli dedicati alle sponde occidentali del grande "lago spagnolo", e alle mutevoli condizioni che vi facevano affluire - o ne allontanavano - i popoli cinesi, giapponesi e malesi, riescono a costruire collegamenti puntuali col resto dell'opera, e a giustificarla alla fine come una sintesi riuscita. E diremo subito che, pur sempre nei limiti di una storia basata esclusivamente sulla documentazione europea, Spate chiama in causa in questi capitoli fonti ben diverse dalle semplici cronache dei 'conquistadores' e metodi di analisi ben più sofisticati delle storie moderne che ne hanno narrato e rinarrato interminabilmente le gesta. Nel tracciare i percorsi del flusso dell'argento dalle miniere americane verso oriente (Siviglia) e verso occidente (la Cina), per esempio, egli deve affrontare problemi di storia economica che rendono corposo un quadro fino allora troppo esile. Lo stesso dicasi per le parti che riguardano l'intrusione inglese in un mare considerato come proprietà esclusiva dai primi padroni del mondo: è chiaro che l'esistenza di fonti più generose e più studiate, come sono quelle che riguardano l'espansione inglese, ha facilitato il compito della sintesi; ed è chiaro che questo è il problema di fondo per un'opera del genere, il cui valore dipende, oltre che dall'ampiezza di una visione, dal lavoro di coloro che nel passato si sono assunti il compito di essere testimoni, e cronisti, e storici nel senso pieno del termine.
Alla fine del volume, l'azione "a tenaglia" di due civiltà evolute e rivali, l'orientale e l'occidentale, ha ormai circondato efficacemente l'ultimo santuario dell'uomo "selvaggio". Spetterà al secondo volume dell'opera di ripercorrere la grande invasione del Pacifico, l'"impatto fatale" che esploratori, galeotti cacciatori di balene e di foche, coloni e missionari infersero a quel mondo primitivo. Prima di sottometterlo del tutto, anche dal punto di vista del sapere.

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