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Storia del Regno di Napoli - Benedetto Croce - copertina
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Descrizione


Nel 1923, sollecitato dai problemi di critica e di metodo allora urgenti in lui, Croce giunse finalmente a realizzare un progetto a lungo meditato: unopera complessiva di storia del Mezzogiorno. La differenza fra le due Italie appariva infatti, come tante altre volte prima e dopo, irrimediabile, e portava a diagnosi e a previsioni sconsolate. Nello stesso tempo maturava ormai nel pensiero di Croce una nuova concezione quella della storia etico-politica , che sarebbe rimasta poi come la sua più tipica e originale teoria storiografica: essa considera le vicende storiche come un processo essenzialmente spirituale e culturale nel corso del quale, grazie alla spinta morale degli uomini e dei gruppi che se ne fanno portatori, si elaborano istituzioni e stati, diritto e società, tecniche ed economie, procedure e prassi e si assiste a ogni passo allavventuroso evolversi della libertà. In tale quadro la storia del Mezzogiorno sfugge finalmente a quelle acritiche esaltazioni o condanne totali così frequenti anche oggi, come anche alle recriminazioni sul malgoverno o sulle dominazioni quali spiegazioni onnivalenti della negatività storica del Mezzogiorno. Il disegno di Croce è invece estremamente mosso e suggestivo: la storia di un paese identificata con quella della nazione che vi si formò dal XIII secolo in poi, lalternarsi di grandi momenti creativi come pure di crisi e involuzioni, lo stretto intreccio con la storia italiana ed europea. Prende inoltre risalto la ricchezza di espressioni civili e culturali delle vicende politiche e sociali connesse al lungo contrasto fra re e baroni, alla costruzione di uno stato moderno, allo sforzo di riformarlo in senso europeo e liberale, cui fece seguito la dissoluzione provocata dal mancato conseguimento di una tale riforma.
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Dettagli

2
1992
16 novembre 1992
572 p.
9788845909498

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max
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È la storia crociana con più “fatti” e la meno filosofica, ma neanche in questo caso è possibile capire la grande storiografia di don Benedetto senza ricondurla alla trama della sua filosofia dello Spirito. Splendido lo stile.

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Giovanni Battista Buquicchio
Recensioni: 1/5

L'ottimismo di Croce è a prova di realtà. A pag. 342 esalta la "grande nobiltà che [al risorgimento italiano] viene dall'essere sorto non come effetto d'impetuosi interessi economici o di fanatica religione ed orgoglio di stirpe, ma mosso e animato da dignità morale, rischiarato da luce intellettuale, non angusto nella sua rivendicazione della patria, benevolo e fraterno verso gli altri popoli, amici e nemici". Qui Croce dimostra, per usare un gergo da commentatori di incontri di calcio, di aver visto un'altra partita, un risorgimento immaginario. Il pur benevolo e affezionato Giustino Fortunato definì 'dottrinario' il suo ottimismo, e in una lettera del 1928 a Giovanni Ansaldo scriveva di Croce: "Egli è ottimista, insuperabilmente ottimista. La sua maggiore concezione è questa, che gli uomini si dividono tra ottimisti e pessimisti". (Vedi la lunga Nota del curatore). Tuttavia io credo di aver trovato una inconsapevole e netta smentita a se stesso nelle parole che Croce scrive alle pagine 203 e 204, dove dice che è l'irriflessione, e anzi l'inerzia mentale, nei rispetti della vita politica che spiega come l'intonazione degli storici napoletani prima del Settecento si mantenesse costantemente ottimistica. E aggiunge, con convinzione solo libresca: "Ora, il segno effettivo della sollecitudine per la cosa pubblica è la trepidazione e l'angoscia e il pessimismo, come il segno mentale è la critica e la censura: pessimismo bensì non passivo ma attivo, censura concreta e concludente, ma pessimismo e censura sempre". Di fronte a queste parole, c'è da meravigliarsi che il filosofo Croce non abbia ammonito lo storico: "Nosce te ipsum".

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Massimo Zaccardi
Recensioni: 2/5

Il giudizio di B.C. sul modo in cui il Sud fu unito al resto d'Italia è molto deludente. C. giustifica tutto quello che accadde, trovandolo inevitabile e benefico. I liberali napoletani più 'lungiveggenti', "poiché non era possibile far che l'Italia merid. entrasse energicamente da sola nella nuova via nazionale", scrive C., "la legarono al carro dell'Italia; poiché l'antico Regno autonomo era diventato un ostacolo, non si lasciarono commuovere da care memorie o turbare da pensieri particolaristici, e sacrificarono senza rimpianto il regno di Napoli, il più antico e vasto stato d'Italia, all'Italia nuova". E C. continua: "Dopo la guerra del '59 [..] si attese indarno che Napoli si sollevasse; e la nuova Italia dové essa dare l'avviata con la politica del Cavour e la spedizione di Garibaldi". C. sa tutto e conosce tutto, ma, fisso nella sua idea mistica di comunità nazionale animata da alti pensieri e profonda vita morale, non vuole capire niente di ciò che non rientra nella sua patriottica visione. "..necessaria fu, nel 1860, la dissoluzione del Regno di Napoli," scrive a p. 332, "unico mezzo per conseguire una più larga e alacre vita nazionale, e per dare avviamento agli stessi problemi che travagliavano l'Italia del mezzogiorno". A noi che viviamo 150 anni dopo quella unificazione e siamo testimoni senza speranza della generale corruzione nella quale l'Italia intera ha cominciato a scivolare, subito dopo l'unità, con inarrestabile accelerazione, viene naturale considerare retoriche le parole di C. e ritrovare nel carattere violento e truffaldino di quella unificazione molte ragioni della nostra disastrosa condizione attuale. Eppure C. scriveva più di 60 anni dopo l'unità e ripubblicò il suo libro nel 1943, limitandosi ad aggiornare la bibliografia. Il punto più basso di comprensione e di sensibilità C. lo tocca quando scrive che la dinastia borbonica aveva chiamato al suo soccorso le rozze plebi, "non trovando quasi altri campioni che truci e osceni briganti".

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Benedetto Croce

1866, Pescasseroli

(Pescasseroli, L’Aquila, 1866 - Napoli 1952) filosofo, critico e storico italiano. Senatore dal 1910, per un anno ministro dell’istruzione con Giolitti nel primo dopoguerra, mostrò un’iniziale indulgenza tattica verso il fascismo; dopo il 1925 (quando, su invito di Giovanni Amendola, redasse il Manifesto degli antifascisti) mise in atto una ferma opposizione aventiniana. Godette tuttavia di una certa libertà che gli permise di continuare le pubblicazioni della sua rivista «La Critica», redatta prima dell’avvento del fascismo, in collaborazione con G. Gentile. Dopo il 1943 si trovò presidente del partito liberale e componente del comitato di liberazione: fu ministro nei governi Badoglio e Bonomi, poi senatore di diritto; nel 1947 si dimise...

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