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Perché “Storie di psico-oncologia”? L’autore abbozza una risposta: «Perché parlare della storia di un paziente rappresenta una scelta diversa da quella di vedere il paziente come un “caso”»; e precisa, subito appresso, che trattandosi di pazienti «è evidente che avremo a che fare con le loro malattie, che infatti rappresentano non solo l’occasione in cui sono venuti a contatto con il medico ma anche un punto di svolta delle loro vite». Ma anche per il medico questi contatti sono un punto di svolta, umano e professionale: aspetti, questi, che di solito si tengono separati ma che invece in un certo tipo di attività clinica trovano una loro integrazione. Proprio quest’integrazione (dell’umanità del medico e della sua professione) e quindi la posizione del medico che si confronta con il paziente oncologico sono al centro, nella prima parte del libro, di un largo giro di pensieri che muove da questa considerazione: sia che questo confronto avvenga nella fase della diagnosi, sia che avvenga nel corso del complesso e multidisciplinare iter terapeutico, il medico si sente chiamato ad abbandonare la sua posizione di neutralità per assumere un ruolo più attivo nella relazione con il paziente. Il centro di gravità del discorso, nella seconda parte, è costituito invece dai pazienti e dalle loro storie, ricontestualizzate in un fitto ordito di rimandi alla storia del mito, della letteratura e delle arti visive. Quest’aspetto di continuo richiamo alle arti come inesauribile terreno di attingimento di suggestioni e modelli esplicativi, insieme all’opportunità di un confronto rinnovato con i classici della psicologia e a una problematizzazione della lezione di Chiozza, costituiscono uno degli aspetti qualificanti del libro, che si propone da un lato come contributo alla discussione sulla pratica clinica e dunque alla questione della relazione medico-paziente e, dall’altro, quasi alla stregua di un libro “di genere”, come un suggestivo atto di lettura-ascolto delle storie di numerose pazienti affette dal cancro della mammella.
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