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Criticando la tradizione, che condanna il suicidio perché contrario alla volontà divina, alla natura e all'interesse della società, gli illuministi ripropongono l'atteggiamento liberale degli stoici. Originale e filosoficamente provocatoria è la posizione di Kant, il quale ribadisce che il giudizio morale non può essere derivato da principi eteronomi, ma ritiene che il suicidio non sia permesso proprio in base all'autonomia e alla libertà umane. L'anonimo, però, rivendica la legittimità della morte volontaria secondo i principi dell'etica kantiana e giunge alla conclusione che quando l'organismo risulta non adeguato all'esercizio della moralità c'è un diritto (o perfino un dovere) al suicidio, che solo il materialismo può considerare equivalente alla distruzione della persona. Non c'è un diritto alla morte volontaria in generale, ma nemmeno si può dedurre dai principi morali un suo divieto assoluto. In effetti la questione del suicidio mette alla prova la loro capacità di far presa sulle nostre esperienze e intuizioni morali. La massima del suicidio, secondo Kant, capovolge l'obbligazione morale: lo stato sensibile dell'uomo diviene il movente ad agire e non per realizzare l'umanità, bensì per abbreviarne l'esistenza. Comunque non si deve idolatrare la vita in sé e per sé, né lasciare che l'agire venga determinato dall'istinto di conservazione. Il problema kantiano non riguarda dunque la custodia di un valore assoluto dato con l'esistenza, bensì la coerenza del volere con le sue proprie condizioni: non si può volere di non volere le condizioni della volontà, di essere liberi di far sparire la propria libertà. Tuttavia nell'etica kantiana l'articolazione dei livelli del giudizio morale, le distinzioni concettuali e le domande che non trovano risposte univoche lasciano aperta la possibilità che il rifiuto della massima del suicidio non escluda, sotto condizioni non specificabili a priori, l'ammissibilità di regole pratiche e quindi di azioni che abbreviano la vita.
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