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Tintas. Tredici racconti dal Cile - copertina
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Tintas. Tredici racconti dal Cile - copertina

Descrizione


La letteratura cilena non è mai stata tanto ricca e vivace come in questi ultimi anni. Nel tentativo di chiudere i conti con un passato che ha lasciato ferite e ombre lunghe, una schiera di giovani scrittori sta rivitalizzando lo spazio artistico nazionale, a volte affrontando apertamente o come metafora il tema mai dimenticato della dittatura, altre volte imboccando nuove strade e modi originali di descrivere il disagio delle giovani generazioni. Da Santiago, fulcro culturale del paese, alle immense periferie, per arrivare alla realtà mineraria del nord, questi racconti aprono uno squarcio sulle voci più interessanti del Cile d'oggi. Dopo le antologie dedicate al racconto messicano e cubano, questo terzo volume incentrato sulla più recente letteratura cilena propone una selezione di scrittori accomunati da indiscussa qualità, doti immaginative e freschezza.
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Dettagli

2017
7 dicembre 2017
286 p., Brossura
9788895492476

Voce della critica

Una cordigliera di novità e tredici sfumature di Cile

Per convincersi che il Cile sia una nazione che si estende in modo verticale e sottile, facendo della sua lunghezza la propria forza e la propria fragilità, la cartina geografica non è certo l’unico strumento. I limiti di una terra, i suoi confini, le sue estensioni, si possono cogliere in molti modi. Tintas è uno di questi: un’antologia, pubblicata da Gran Via edizioni, curata e messa insieme da Maria Cristina Secci, docente di Linguistica, Letteratura e Filologia all’Università di Cagliari, e tradotta da alcuni studenti della medesima.

Si tratta di una lunga narrazione composita, costituita da tredici epifanie di vita, tredici fotografici tasselli che, se da un lato non sono stati creati per incastrarsi necessariamente tra di loro, dall’altro sono come pietre raccolte sulla stessa spiaggia, o come resti sparsi nell’unico piatto, dopo che qualcuno ha mangiato (“Ciò che accadde fu tanto tempo fa…” da Noize di Álvaro Bisama). Il piatto somiglia molto ad una piazza, e più precisamente a Plaza de Armas, la più importante piazza di Santiago; chi ha appena finito di mangiare somiglia molto, invece, a quel dio che divorava i propri figli, incurante del fatto che prima o poi sarebbero venuti fuori dalle sue viscere, per fare i conti con lui, per fargli capire che anche dall’oscurità di quel ventre riuscivano pur sempre a respirare gli eventi e la storia, anche sapendo rimanere in silenzio (“…Lei aveva la testa inondata di esclamazioni, ma le trattenne…” da Alle quattro, alle cinque, alle sei di Alejandra Costamagna).

Ma il tempo è un divoratore nato… Divoratore di anni, di giorni, di istanti. Anche dei più terribili, quelli che nessuno riuscirebbe a mandare giù. Così, in quest’allegoria del tempo che spazza via ogni cosa, il Cile diviene vittima e carnefice di se stesso, e i suoi figli aspettano, aspettano incessantemente di venir fuori dalle crepe smussate di quell’epoca, e quando infine ritornano alla luce parlano, raccontano, ci consegnano l’esperienza sensoriale di una vita che appare come in esilio, dentro o fuori i confini della propria patria. Si può essere cileni in qualunque parte del mondo; si può non esserlo a casa propria, sui propri banchi di scuola, nelle proprie officine, nelle proprie uniformi (“…I vostri nomi, valorosi soldati, che del Cile siete stati il sostegno…” da González di Nona Fernández).

Tintas non ha un’unica trama, né un unico stile narrativo. È una raccolta di racconti brevi, alcuni più degli altri, dove tredici diverse voci si intrecciano come controcanti su un’unica melodia che ad un orecchio attento certamente non sfugge. È una musica che insiste lungo tutte le 256 pagine su cui sono distribuiti i racconti, e somiglia a quelle musiche antiche, che hanno accompagnato la nostra infanzia. Ma non la “nostra”, non l’infanzia di chi legge questo libro, ma l’infanzia di chi l’ha scritto (“…noi affilavamo le matite sotto i tavoli…” da Lame di rasoi di Lina Meruane).

È una musica associata ai ricordi di anime liberate dal tempo, ma rimaste in qualche modo imprigionate in una collettiva memoria malinconica (“…lui aveva detto di voler ascoltare il suono della corrente…” da L’ultimo film di Carlos Araya Díaz). E questa memoria percorre vite e strade; suscita confessioni e rimpianti; e dove qua e là si coglie uno slancio di vita, ecco che subito dopo questo ricade verso il basso, come un onda che si frange sugli scogli.

Il titolo della raccolta esprime benissimo il contenuto. Si tratta di tinte, di sfumature. E normalmente le sfumature riguardano un unico colore. Qualcuno penserebbe subito ad un preciso colore politico, perché quella musica triste si cominciò a sentire in Cile proprio l’11 settembre 1973, ritmata da colpi di pistola e di fucile (“…Questa è la grandezza della nostra sconfitta…” da L’Antartide inizia qui di Benjamín Labatut). Tuttavia, se di sfumature di colore si tratta, ci piace pensare che si tratti di un colore più interiore, più viscerale, e dunque più profondamente politico di qualunque altro: un colore certamente ingrigito, ma tendente al verde di quella copertina; il colore di un’umanità in fondo irrimediabilmente innamorata di se stessa, che cerca di ricostruirsi dalle proprie macerie, da interi blocchi di pietra caduti in un solo giorno (“…Penso che l’amore sia una scelta, proprio come la politica…” da Regni di Romina Reyes).

Ma i terremotati di questa tragedia non sono solo gli scrittori dei tredici racconti; capita di imbattersi in narrazioni in cui il dolore di quel giorno non risulta come un elemento personalmente vissuto, quanto piuttosto ereditato. Un dolore, come una tara genetica, può scombinare l’armonia di un DNA civile e sociale, e può sfociare in malattie esistenziali che si esprimono anche diverse generazioni dopo (“…A un tratto incontrai gli occhi umidi di mio padre, io nuda nel mio freddo…” da Finché non si spegneranno le stelle di Andrea Jeftanovic). Sono le malattie del disagio, del confronto forzato con terre e culture in cui ci si è trovati a dover improvvisare una vita di seconda mano, o semplicemente il quotidiano memoriale di un ricordo costantemente presente e visibile, e tristemente efficace; una specie di sacramento al contrario, che non dà vita ma morte.

Questi tredici racconti appaiono come altrettante cellule, tutte diversamente specializzate ma appartenenti ad un medesimo organismo che, nonostante la malattia trascorsa e quella presente, continua pur sempre a vivere. Un Cile malinconico ma tutt’altro che morto, e che vien fuori come il fiato dalla bocca di un malato che si rialza e si rimette a camminare, e lo fa attraverso queste narrazioni tutte diverse, e tutte profondamente uguali alla loro così inarrestabile natura rivelativa (“…Devo far esplodere questa storia, una volta per tutte…” da Gettarsi nella mischia di Alia Trabucco Zerán).

Sono tredici sfumature sonore di una medesima voce che suona a volte come una lamentazione, ma parla di vita, e lo fa con un’assolutezza di immagine che sgomenta e allo stesso tempo rivitalizza l’essere. Perché chi scrive vive! Chi prende una penna in mano vive! Anche quando ricalca le gialle righe di un testamento (“…Che perdiamo o vinciamo, oggi mi hai dimostrato di essere destinato a grandi cose…” da Il Jab tutta la notte di Gonzalo Baeza). Chi è capace di emettere un grido terribile, talvolta lo fa perché dall’alto della sua caduta desidera che altri si rialzino, o non cadano oltre certi confini difficili da riorganizzare; chi scrive di un se stesso morente, può non farlo solo per se stesso (“…Non aveva affastellato quelle vertigini per la salvezza della sua carne…” da L’educazione di Marcelo Leonart).

In tal senso, la lunghezza così caratteristica del Cile ce lo fa somigliare ad una bacchetta di cristallo: fragile e trasparente allo stesso tempo. Qualcosa che, mentre rischia di rompersi, fa passare in sé un raggio di luce e lo riflette in tredici modi diversi, purché possa sempre illuminare, anche lì dove la storia sembra aver chiuso ogni finestra.

Dal punto di vista precisamente letterario, questa antologia appare verde ancora una volta, e quindi il colore della copertina e la scelta del titolo risultano doppiamente azzeccati. Prima ci si riferiva ad un verde speranza, ora ad una sorta di sconfinata primavera letteraria, dove “sconfinata” è da intendersi letteralmente, tanto che a scrivere troviamo cileni ebrei, turchi, e “quasi” statunitensi, perché quel quasi ci vuole, perché dovrà passare molto tempo perché un cileno possa definirsi statunitense. Certamente si definirebbe americano, anche in questo caso nel senso più letterale; ma non lo farà per paura di essere frainteso.

I racconti esprimono forme differenti, e le varietà si palesano in modo abbastanza visibile. Troviamo “tinte” metafisiche alternate ad altre decisamente più immanenti; si svelano nude interiorità dell’anima come pure forme più prosaicamente erotiche; qualche volta ci sembra che il racconto diventi un romanzo, ed altre volte abbiamo l’impressione di leggere un quotidiano; talvolta chiuderemmo il libro perché facciamo fatica a seguire un pensiero, ed altre volte siamo costretti a chiuderlo perché ci vien voglia di pensare; alcune volte rimaniamo scandalizzati da certe parole, da certe descrizioni, e altre ancora si ha l’impressione di rimanerne accarezzati (“…è contenta di sapere che vivremo insieme…” da Fantasia di Alejandro Zambra).

Insomma, esattamente come quando si fa un viaggio in Cile: 756 chilometri quadrati di storia racchiusi in 256 pagine di storie. Più di tredici milioni di abitanti in appena tredici racconti. Ed una varietà geografica e climatica tutta finita sulla carta, nella trasposizione spontanea di tante diverse sensibilità e idee narrative. Si parte da L’ultimo film e si arriva a Un mondo di cose fredde così come si partirebbe da Arica per arrivare a Punta Arenas. Un viaggio da un estremo nord a un sud estremo, passando per tutti i punti intermedi di questa letteratura così fresca ed allo stesso tempo pregna di emozioni ancestrali. Luoghi così diversi, come tutte le ambientazioni che i racconti ci propongono; accenti così differenti, come gli umori che da queste storie di promanano. Una cordigliera di novità testuali, che magari non ci saremmo aspettati, e che invece ci sorprendono portandoci da spiagge caldissime a climi gelati (“…sentivamo di non poter stare troppo tempo nello stesso posto…” da Un mondo di cose fredde di Diego Zuñíga). Correnti calme e impetuose di uno stesso oceano, che di “pacifico” non ha più neanche il nome, perché risciacqua assidue e persistenti inquietudini che lasciano sempre un ripiegamento positivo nell’anima, anche se magari un racconto ti è piaciuto e un altro no; come quando ci si sposta di città in città, e magari una città ti piace e l’altra no, ma ti importa poco, perché comunque sei in Cile, sei dall’altra parte del mondo, e sei padrone di quasi un intero meridiano.

Un merito particolare a chi ha selezionato questi racconti e li ha scelti, presupponendo certamente sia la difficoltà sia la sorpresa di chi avrebbe dovuto poi leggerli tutti insieme. Un merito perché chi ha scelto ha scommesso non su tredici storie così diverse, ma su una storia sola, perché si potesse continuare a raccontarla. Un merito perché chi ha scelto questi racconti ha deciso di non tradurli, ma li ha fatti tradurre ad altrettanti giovani universitari. Questo libro è scritto e tradotto da una giovinezza che sta da una parte e dall’altra, e che in fondo ne rappresenta l’anima. Un’anima calda e dalle molte tinte, dai molti controcanti, come una canzone degli Inti Illimani.

Recensione di Nuccio Puglisi

 

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