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1993
1 gennaio 1997
145 p.
9788806126889

Voce della critica


recensione di Mengaldo, P.V., L'Indice 1993, n. 5

Luigi Baldacci è uno dei maggiori critici italiani, e Tozzi è uno dei "suoi" autori. Questo libretto einaudiano ne raccoglie alcuni dei più importanti interventi sull'argomento: ne risulta una vera e propria lezione militante su Tozzi, e di metodo in genere. Il punto di partenza ideale degli scritti di Baldacci sono certamente i grandi saggi dell'altro critico "alto" di Tozzi, Giacomo Debenedetti, di cui, sfumati alcuni concetti interpretativi, ne sono qui accettati molti altri di essenziali, a partire da quello che centrale sia, nello scrittore senese, la violenza del padre verso il figlio: un padre, precisa il critico fiorentino, non rivale come di norma ma traditore, traditore di un nodo affettivo che spesso si presenta come legame fortemente carnale ( dunque - aggiungerei - difficilmente sublimabile, sicché l'equazione padre= Padre, Dio, andrà forse posta con cautela). Di qui traumi, regressione e afasia, "degenerazione e paralisi", sadismo, incontro di vittime e carnefici intercambiabili, e così via. Ma non vorrei appiattire troppo Baldacci su Debenedetti, avendo il primo, tanto per cominciare, una visione ancor più tragica e disperata, a buon diritto, del mondo di Tozzi.
Del resto molte nuove interpretazioni tozziane sono state affacciate negli ultimi decenni; e come spesso accade che un critico precisi e lucidi la propria visione di uno scrittore oppugnando le altrui, così fa anche Baldacci in questo libro. Prima di tutto cade definitivamente, se ce n'era bisogno, l'interpretazione naturalistica di Tozzi (il naturalista "sa", "spiega", mentre Tozzi "narra in quanto non può spiegare", Debenedetti, e quanto ai personaggi non meno acutamente fissa Baldacci, ad esempio, che "Ghisola è piuttosto un 'refrain' che un personaggio"). Neppure le caparbie letture psicoanalitiche hanno fortuna presso Baldacci, nonostante sappia bene che il suo narratore non è "ideologo", ma "psicologo" (almeno quando è al meglio), e sia capace lui stesso di eccellenti analisi psicologiche: (come quella di uno dei grandissimi brani tozziani, il sogno di Ghisola): e ha ragione, perché lo psicologismo tozziano è altrettanto fondamentale quanto allo stato fluido, e bene spesso a quello elementare. Al contrario Baldacci sottolinea giustamente l'importanza delle letture di Tozzi, recentemente messe in luce, della ricerca psicologica alle soglie di Freud: James, Janet, Nordau ecc.: che è quanto dire insistere anche da questo lato sulla consapevolezza di Tozzi, troppo negata. Ciò si lega, anche se Baldacci non stabilisce esplicitamente il legamento, con la sua visione non preculturale ma culturale del famoso "primitivismo" tozziano: che infatti il Nostro mette in parallelo al contemporaneo primitivismo figurativo e, ancor più decisivamente, assegna al momento "metastilistico" di Tozzi.
Ma più di tutte Baldacci attacca l'interpretazione, con varie sfumature purtroppo corrente, di Tozzi come scrittore (reazionario) cattolico o cristiano: mostrando invece che si va dalla religiosità come ''fenomeno isterico" di "Adele", al globale a-cristianesimo del primo periodo tutto, al fatto che in generale (benissimo!) "il suo cristianesimo è senza seconda vita", che Dio vi sta in quanto opposto ideale all'uomo divenuto bestia e che il grande tema del senese è (benissimo ancora) l'"orfanezza del mondo", il mondo senza carità - n‚ amore. E quanto al vero o meno reazionarismo di Tozzi rimando a p. 75 e soprattutto riporto il forte finale del libro: "L'ottimismo, come si sa, è della prassi, ma i grandi scrittori si ostinano a metterci di fronte uno specchio assai poco galante: non hanno il compito di aiutarci a vivere".
Da Moravia soprattutto, invece, Baldacci accetta la tesi dell'"esistenzialismo" di Tozzi, che può andare assieme ad aspetti dello scrittore su cui lui stesso insiste, come l'oggettivismo e il crudo fenomenismo, il suo senso di una realtà estranea alla coscienza, il suo ridurre tutto quello che è "società" a "natura" (che è, ancora, press'a poco il rovescio del procedere del naturalismo, che pretende spiegare società e psicologia con le leggi di natura). A mio parere c'è però un punto che allontana Tozzi da qualsiasi esistenzialismo, e cioè la sua fortunata incapacità di scrivere "a tesi" (se non, poco felicemente, verso la fine). Così, non c'è dubbio sull'autobiografismo tozziano, corroborato da troppi dati e documenti, ma quando molto opportunamente Baldacci stesso parla di un autobiografismo che è quello di un "Io possibile", allora forse si rimpiange un poco che non abbia percorso questa via mettendo fra parentesi, almeno per il momento, l'altra.
Infine un'altra domanda che rivolgerei all'amico Baldacci: anche lui batte (e il titolo del libro fa da cassa di risonanza) sulla ''modernità'' di Tozzi, legandola al suo valore. Può darsi che nel caso sia così, ma in linea generale questo procedimento - di cui anche chi scrive ha abusato - non mi sembra oggi come oggi del tutto convincente: potrebbe essere - e magari anche nel caso appunto di Tozzi - che un artista sia grande anche se non è "moderno", o forse proprio per questo.
Ma sono quisquilie. Mi affretto invece a segnalare un altro punto forte di questo libro: che - contro le tendenze complessive della critica tozziana - non solo scala con molta decisione i valori delle opere, ponendo ai vertici dei romanzi (con mio gran piacere) "Con gli occhi chiusi", e al vertice di tutto le più straordinarie novelle (c.s.); ma prende alla lettera l'affermazione che Tozzi sia uno scrittore "con e senza sviluppi", periodizzando sostanzialmente in tre fasi e servendosi allo scopo di concetti "forti". come il naturalismo di ritorno o il progressivo (relativamente parlando) scivolare verso l'ideologismo: onde gli estremi - "Tre croci", "Gli egoisti" - appartengono certo al Tozzi men buono.
Non mi illudo che un lavoro critico, anche se di questa caratura intellettuale, induca i nostri compatrioti a fare quello che non hanno mai fatto, leggere un po' di più questo che e uno dei grandi narratori d'Italia. E tutto sommato, spiegare il perché di questa ignoranza di un tale scrittore, integralmente tragico, sarebbe lungo ma non impossibile, solo che si pensi ad alcuni aspetti tipici del "carattere degli italiani": semi-cristianesimo, che non accetta n‚ la religiosità tragica n‚ l'assenza di Dio; scetticismo se non cinismo; incapacità di reggere un mondo senza riso n‚ sorriso; ai livelli più "elevati" quelli dell'intellighenzia e di coloro che ne sono influenzati, il persistere di quella forma di ottimismo che è l'ideologia progressista; l'aver letto troppo poco il nostro maggior filosofo, che è naturalmente Leopardi. E via dicendo. Poco da illudersi dunque, chissà se e quando scoccherà l'ora di Tozzi. Ma intanto questo scrittore, ripeto, integralmente tragico ha trovato un critico che lo comprende così bene perché, anzitutto, lui stesso non si gingilla con illusioni e speranze.

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Conosci l'autore

Luigi Baldacci

(Firenze 1930-2002) critico italiano. Ha svolto ampie ricognizioni su paesaggi letterari italiani ed europei. Dopo Il petrarchismo italiano nel Cinquecento (1957), che rimane uno degli studi fondamentali sull’argomento, ha concentrato i propri interessi soprattutto su temi di letteratura otto-novecentesca, con felicità di scrittura e forte inclinazione alla critica militante, che ha esercitato con giudizi tanto acuti quanto personali. Si vedano la raccolta di saggi vari Letteratura e verità (1963), la monografia Bontempelli (1967), I critici italiani del Novecento (1968), Le idee correnti e altre idee sul Novecento (1969), Libretti d’opera e altri saggi (1974), Tozzi moderno (1993), La musica in italiano. Libretti d’opera dell’Ottocento (1997), Il male nell’ordine. Scritti leopardiani (1998),...

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