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Tre capitali cristiane. Topografia e politica
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1 gennaio 1997
9788806598587

Voce della critica

KRAUTHEIMER, RICHARD, Tre capitali cristiane. Topologia e politica, Einaudi, 1987

KRAUTHEIMER, RICHARD, Roma di Alessandro VII (1655-1667), Edizioni dell'elefante, 1987
recensione di Previtali, G., L'Indice 1987, n. 8

Due traduzioni recentemente pubblicate, rispettivamente dalla Einaudi e dalle Edizioni dell'Elefante che ne richiamano a loro volta altre due pubblicate in precedenza dagli stessi editori (R. Krautheimer, "Architettura paleocristiana e bizantina", [1965, quarta edizione 1981], Torino, Einaudi, 1986; Id., Roma, "Profilo di una città 312-1308", [1980], Roma, Edizioni dell'Elefante, 1981) ripropongono al lettore italiano il caso Krautheimer; il caso, cioè, di uno dei pochi superstiti della generazione dei padri fondatori della storia dell'arte (gli affiancheremmo, tra i viventi, forse i soli nomi di Otto Paecht e di Charles Sterling), vera generazione di classici, di fronte ai quali anche i migliori di noi non possono aspirare che ad un posto nella Antologia Palatina della disciplina.
Non che questi quattro volumi siano ancora sufficienti a tracciare un ritratto a tutto tondo dello studioso; per ciò fare occorrerebbe quantomeno, leggere la splendida ed insuperata monografia sul Ghiberti (la cui traduzione, promessa nel 1978, ancora si attende) e spigolare fra i suoi numerosi saggi sparsi (in parte utilmente riuniti in un volume inglese del 1969). Bastano tuttavia a farsi una idea esatta del modo di lavorare dell'autore che del metodo classico della storia dell'arte (quello per intendersi che fin dai tempi, almeno, di Seroux d'Agincourt, consiste nel confrontare i documenti, scritti, con i monumenti, figurati, illustrando gli uni con gli altri, e viceversa) appare, in senso pieno, la più perfetta incarnazione.
Nella nostra epoca di tormenti metodologici il compito dello storico quale lo descrive Krautheimer ("Roma, Profilo...", pp. 430-431 nota) può sembrare di una semplicità disarmante: raccogliere, innanzitutto, i fatti; poi interpretarli; presentarli, infine, con la massima chiarezza possibile. E quasi irrita la apparente agevolezza con cui egli assolve il compito, senza mai perdere la fede nel valore illuminante della storia dell'arte per la comprensione storica generale e nella fiducia che mai lo abbandona di poter sempre passare - travolgendo, nel concreto della ricerca, le difficoltà teoriche - dal livello della forma a quello dei contenuti (nel libro sulle "Tre capitali..." dalla topografia e dalla morfologia alla politica) e viceversa. Così come può apparire inaudito, coi tempi che corrono, che una sola persona possa assumere su di sé il compito di affrontare sistematicamente argomenti come la storia dell'architettura paleocristiana e bizantina, o quella della città di Roma nel medioevo. Eppure, a chi si dia la pena di uno sguardo retrospettivo, risulterà subito chiaro che questa solida classicità (da Bruno Walter della storia dell'arte) non è solo un retaggio ottocentesco, ma è stata raggiunta, direi riconquistata, da Krautheimer attraverso un percorso che lo ha visto confrontarsi direttamente, ed alle date giuste, con le più significative proposte di metodo del nostro secolo.
Nato nel 1897, Krautheimer ha fatto a tempo ad essere allievo, nell'Università di Monaco, del padre del formalismo; Heinrich Wölfflin e successivamente di Paul Frankl, ed in quella di Berlino dell'amico di Warburg, Adolf Goldschmidt. All'estremismo formalistico degli inizi del secolo ha reagito fra i primi, in stretta consonanza, se non addirittura in anticipo, con l'opera di altri illustri rappresentanti della scuola tedesca di storia dell'arte, da Erwin Panofsky a Rudolf Wittkower, scrivendo, tra l'altro, una fondamentale "Introducrion to an "Iconography of Medieval Architecture"" [1942] in cui rivendica la funzione del "contenuto" nella storia dell'architettura, sia esso identificabile nel significato simbolico della disposizione delle componenti strutturali, sia esso riducibile alla relazione della forma con la specifica dedicazione o con lo specifico scopo liturgico o comunque religioso dell'edificio. Il che non gli ha impedito, dieci anni dopo, in una memorabile recensione ad André Grabar, di mettere in guardia contro il pericolo di "indurre con troppa sicurezza dalla pianta (conosciuta) di un edificio la sua funzione (sconosciuta)" ricordando opportunamente che "i legami tra forma e significato, indissolubili all'inizio del processo, divengono tenui alla fine" e di arrivare a considerare, nel 1969, l'iconografia architettonica una "pericolosa terra di confine".
Nulla quindi sarebbe più lontano dal vero del considerare questo profondo conoscitore dei monumenti e delle fonti medioevali (inventore e direttore, fra l'altro, del "Corpus basilicarum christianarum Urbis Romae", 1937, 1959, 1967, 1977) come qualcosa di simile ad uno "specialista". Ogni saggio di Krautheimer è scritto, ovviamente, da competente, ma è pensato, oserei dire, con l'animo di un dilettante, nel senso settecentesco della parola, di un uomo, cioè, che affronta l'argomento preso a trattare con mente aperta e disponibile, per proprio diletto intellettuale, e questa sensazione di viaggio di piacere nel mare della conoscenza riesce in qualche modo a trasmettere al lettore.
Nel libro sulla Roma medioevale, tanto per fare un solo esempio, potevano stupire, sulla bocca di uno storico dell'arte-archeologo così accanitamente impegnato a riscoprire ogni traccia superstite dell'architettura cristiana primitiva, espressioni di vivo apprezzamento per quei rifacimenti barocchi che con tanta perseveranza i nostri soprintendenti si sono per anni impegnati a demolire (vedi, per esempio, a p. 101 la citazione dello "splendido portico barocco di Santa Maria in Via Lata", a p. 77 l'abside di Sant'Andrea sostituita nel Seicento dall'"elegante portico d'ingresso su colonne"; alle pp. 35 e 215 il riferimento alla "splendida ristrutturazione settecentesca" della Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, etc.). Un atteggiamento di illuminata tolleranza che si poteva cercare di spiegare, all'epoca della pubblicazione del volume, semplicemente con la dichiarata adesione di Krautheimer al "metodo moderno di storia dell'architettura" ... "mediante il quale è diventato possibile analizzare le differenti strutture di un edificio, scoprire edifici anteriori in costruzioni più moderne, separare gli strati differenti sovrapposti in una costruzione o ricostruire il loro aspetto originale e la loro storia architettonica". Ma ora sappiamo che non si trattava solo di tolleranza storicistica, bensì di una profonda adesione alle ragioni e al gusto della architettura romana "moderna". Lo storico senza nostalgie della Roma medioevale ci ha dato infatti, con il libro sulla politica urbanistica di Alessandro VII, anche la più attenta e realistica interpretazione delle motivazioni politiche e culturali che sottendono la rimodellazione "barocca" del volto di Roma (piazza San Pietro, piazza del Pantheon, piazza del Popolo, piazza Colonna, il Corso, il Quirinale, piazza Santa Maria della Pace, piazza Santi Apostoli, Trinità dei Monti, sono solo alcuni dei luoghi in cui il papa fece demolire e costruire).
Nella interpretazione di Krautheimer la fitta serie di interventi voluti dal papa (raddrizzamenti di strade, sgombero ed apertura di piazze, rimodellazione di portali e facciate, etc.) e da lui discussi con i suoi collaboratori (Bernini primo fra tutti) acquista una coerenza assoluta al fine di costruire "una nuova immagine di Roma": "Alla città più gloriosa dell'antichità, alla città che fin dall'età apostolica era stata il centro della Chiesa si affiancava ora la nuova Roma del papa Chigi, fatta di grandi piazze, di ampi rettifili, di chiese, fontane e palazzi splendidi: capitale della Chiesa, rinnovata e ammodernata in modo da occupare anche nei tempi nuovi la posizione eccelsa che da sempre le spettava, e da reagire alla tormentosa consapevolezza della propria decadenza politica" ("Roma di Alessandro VII", p. 155). E direi che passando dal campo dell'architettura cristiana delle origini, in cui la documentazione è discontinua ed ampiamente lacunosa, a questo campo "moderno" in cui essa si fa invece completa e fin sovrabbondante, ancor più si apprezza il temperamento di vero storico di Krautheimer, che è innanzitutto, come avrebbe detto il Vasari, capacità di "interporre il proprio giudizio", capacità, cioè, di coordinare, - sintetizzare, scegliere, in definitiva nella dispersiva molteplicità delle notizie, nell'aneddotica dei fatterelli (anche di quelli annotati nel diario dello stesso papa) ciò che è più di altro degno di attenzione, significativo, rilevante.

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