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Emilio Rossi ha l'arte di calare la saggistica nella narrativa rendendo la razionalità più viva e commestibile. Lo aveva fatto con un felice saggio nel 1996, Una pendola per lo Zar. La politica, il tempo, la morte (Sellerio), lo ha ripetuto ora in questo libro con ancor più maestria. Le muse - si sa - erano classicamente nove e ciascuna presiedeva una scienza o un'arte: Calliope, la poesia epica; Clio, la storia; Polimnia, la pantomima; Euterpe, la musica; Tersicore, la danza; Erato, la lirica corale; Melpomene, la tragedia; Talìa, la commedia, e Urania, l'astronomia. Le coordinava - e doveva avere un gran daffare - Apollo. Senza il suo consenso, se ne è aggiunta nel Novecento una decima, innominata, per presiedere il cinema, e ora, nel Duemila, Rossi gliene assegna un'undecima, anch'essa senza nome e dall'identità più spuria, affidandole la cura della comunicazione d'attualità, cioè del giornalismo di informazione.
Per esplorare le radici antropologiche del fenomeno informativo l'autore muove dal racconto che delle proprie avventure Ulisse fa nella reggia dei Feaci, un racconto paradigmatico perché risponde ai cinque interrogativi professionali: Who? What? When? Where? Why? (chi, cosa, quando, dove, perché?) che è l'"abc", la tabellina, per aspirare ad essere un buon informatore.
Ma per non confondere il suo intento con quello dei tanti (troppi?) insegnanti delle scuole di giornalismo, Emilio Rossi, visto che il racconto di Ulisse ha "affascinato, incantato, dilettato, rapito, sedotto, attratto" chi lo ha ascoltato - Re Alcinoo in testa -, propone subito una domanda critica: "Pubblico da sedurre o da rispettare, da accontentare indovinandone le attese o da educare ad un ascolto non prima sperimentato e comunque selettivo o, infine, da chiamare ad amicale condivisione?", che è la domanda che sposta subito il piano di riflessione dal diritto dell'informazione al suo dovere e fa della professione giornalistica - se giustamente intesa - non un privilegio, ma una missione.
L'autore passa così in rassegna tutte le esigenze che i tanti modi comunicativi si propongono di soddisfare, ma anche i tanti errori, ingenuità, inganni, tradimenti, per cui "è importante, sempre più importante, che le regole della retorica siano anche ben conosciute dai ricettori. Saranno così meglio in grado di avvertire quando capiti che il farmaco diventi veleno. E può ben capitare. Saper smascherare il gioco è allora la difesa prima e migliore per non farsene irretire". La giustificazione, troppo spesso addotta da chi fa giornalismo, è quella che "non esiste l'obiettività, "per cui ogni inadempienza andrebbe assolta. Rossi non si fa intimidire dal luogo comune: "L'avvertenza che del fatto non si può dar mai resoconto assolutamente puro da qualsiasi mediazione soggettiva non dovrebbe mai essere pretesto per relativizzare un'obbligazione fondamentale da assolvere per quanto ci riesce, come debito d'onore: stare, per intanto, al fatto come può essere percepito col massimo di onestà cognitiva che possiamo praticare".
L'autore, ovviamente, non dimentica l'esperienza fatta, a tutti i livelli, nel contesto del servizio pubblico televisivo: "Isolarsi entro bozzoli di narcisistica eccentricità è da respingere tanto quanto cercare in modo ossessivo di farsi leggere, ascoltare, vedere" perché "un servizio pubblico esige misura, gusto, un'offerta equilibrata e qualificata, una tenuta di valore e di stile, una aspirazione mai rinunciataria ad affinare la domanda".
Rossi non è mai "apocalittico": "i perfettismi non portano mai buoni frutti. È molto più salutare prendere atto in partenza di limiti e pericoli". Forse è questo suo fondamentale realismo ottimistico a fargli sperare che la "comunicazione d'attualità", nonostante le cadute e le strumentalizzazioni, che egli ben individua, possa farci "più aperti all'essere, più consapevoli riguardo ai segreti della vita e della storia, cognitivamente ed affettivamente più ricchi e disponibili a guardare oltre", pur convenendo che bisogna "sfebbrare il gigantesco organismo informativo". Il recensore, per la verità, è meno speranzoso dell'autore e teme che la popolarità e il successo abbiano dato un po' alla testa dell'undecima musa, tanto da spegnere il fuoco del suo dover essere nell'autoreferenzialità. "È distorsione grave - lo riconosce anche Rossi - che sia l'attualità, solo l'attualità a pretendere di fondare etica ed epistemologia, a dettare valori o disvalori, a determinare parametri di comprensione e di saggezza, così rischiando di piallare e di desertificare interi panorami esistenziali".
Dati i tempi, non so se la prognosi potrebbe essere fausta.
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