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L' unico scrittore buono è quello morto
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L' unico scrittore buono è quello morto - Marco Rossari - copertina
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unico scrittore buono è quello morto

Descrizione


Cosa accadrebbe se a James Joyce venisse rifiutato ogni libro? E se Tolstoj fosse ospitato in radio a Roma, per ascoltare il parere di Ilaria da Foggia? E se William Shakespeare finisse alla sbarra con l'accusa di plagio? Sono solo alcuni dei ritratti paradossali che questo libro ha in serbo per il lettore. Con una prosa scanzonata, "L'unico scrittore buono è quello morto" illumina splendori e miserie del mondo letterario, senza risparmiare i mostri sacri. Autori e lettori, editori e traduttori finiscono in un frullatore di racconti che miscela una metafisica Praga ribattezzata Kafkania (dove i bordelli si chiamano "Il castello", "La condanna" o "La colonia penale") con una San Francisco iperletteraria dove vagano i sosia dei beat, uno scrittore beone alle prese con una lettrice assatanata e un poetastro in gara nel poetry slam più sgangherato della storia. Una parodia per aspiranti scrittori e lettori sgamati, che snocciola una carrellata di personaggi afasici, perduti, smarriti nel tragicomico labirinto delle lettere. Un libro per tutti quelli che vogliono scrivere e per chi li farebbe fuori volentieri, ma anche un grande atto d'amore per la forza della scrittura.
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Dettagli

E/O
2012
18 gennaio 2012
214 p., Brossura
9788866320845

Valutazioni e recensioni

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Giancarlo Tramutoli
Recensioni: 4/5

E' un brillante, esaustivo compendio di ogni tipologia di scrittore e di ogni situazione psicologica, paranoica, patetica, schizofrenica e megalomane legata al virus della scrittura. E le relative ossessioni, i tic, le compulsioni, i miti (ma anche i violenti). Per esempio, si ritrae magistralmente quella vergogna che ogni aspirante scrittore ha provato nel farsi rilegare il dattiloscritto da inviare agli editori, quella sensazione di nudità rispetto all'ipotetica curiosità di chi può capire leggendo che ha di fronte l'autore (ennesimo) di un romanzo con le sue ansie e le sue esagerate aspettative. E in un piccolo centro di provincia, l'effetto è ancora più insostenibile. Rossari tratta la materia con brevi racconti e fulminanti aforismi, per esempio: "C'era uno scrittore che considerava la letteratura finita, anche perché non leggeva mai un libro". Oppure: "C'era uno scrittore che non voleva arrivare al successo e ci riuscì". O ancora: "C'era uno scrittore che decise di vivere recluso e non pubblicare più. Nessuno venne a cercarlo". C'è una cinica demolizione del mito della beat-generation, un James Joyce frustrato dai ripetuti rifiuti editoriali, un Tolstoj impacciato ospite in una radio, uno Shakespeare accusato di plagio e "Lo scrittore che stroncava montagne e partoriva topolini". Infine c'è anche una liberatoria parodia di denuncia della stupida follia degli anni di piombo.

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Voce della critica

  Otto anni separano la pubblicazione di L'unico scrittore buono è quello morto dal precedente romanzo di Marco Rossari: Invano veritas, anch'esso uscito per e/o, è infatti del 2004. Nel mezzo, Rossari ha messo in circolazione per Fernandel le "canzoni sconce e malinconiche" di L'amore in bocca (2007) per poi inanellare una sequenza impressionante, per numero e qualità, di traduzioni dall'inglese e dall'americano: ma niente narrativa. Otto anni, per uno scrittore che non ne ha ancora quaranta, sono una piccola eternità: questo intervallo, che Rossari ha vissuto muovendosi nei meandri del mondo editoriale e scrivendo, è servito per elaborare un'opera ibrida, divertente, piena di illuminazioni e paradossi e pervasa da un tono, come forse direbbe l'autore, malincomico. Ne viene che L'unico scrittore buono è quello morto è un libro di difficile catalogazione: è all'apparenza una raccolta di racconti, ognuno dedicato a uno scrittore o una tappa delle filiera editoriale (lo scrittore che scrive, l'editor, il traduttore, il critico, il rapporto con i lettori – nel caso specifico una lettrice/groupie –, lo scrittore che cerca disperatamente di farsi pubblicare e così via); ogni pezzo è legato a tutti gli altri dal tema generale della scrittura e, strutturalmente, da una serie di aforismi, brevi prose fulminanti, intuizioni comiche, definizioni delle varie tipologie e dei vari tic di chi lavora con la penna che sono un ponte tra un racconto e l'altro e funzionano come ulteriori declinazioni del discorso. Tutto questo fa del libro qualcosa di più di una semplice raccolta: si tratta infatti di una sorta di compendio del mondo della letteratura e dell'editoria e, al tempo stesso e in filigrana, di un'opera di autofiction dove l'autore, benché non nomini mai se stesso, mette a nudo il proprio percorso artistico, rivela quali sono i propri padri e, in ultima analisi, racconta gli otto anni in cui è stato in silenzio. Dio e le carote, il divertentissimo racconto che apre il libro, funziona in questo senso come un introibo che veicola gran parte del discorso sviluppato in seguito: l'io narrante mette se stesso davanti a Dio nel giorno del giudizio e, alla domanda fatidica "Perché scrivi?", risponde mentendo e occultando il vero motivo della sua scelta di vita: la disperazione. Ed è proprio il rincorrersi di disperazioni e idiosincrasie – sempre riportate con toni leggeri – che costituisce il nerbo dell'Unico scrittore: da un Tolstoj totalmente fuori luogo in una trasmissione radiofonica dove il conduttore commenta, con il punto di vista del XXI secolo, La sonata a Kreutzer, a un Joyce che non riesce a pubblicare neanche una riga e risponde ai continui rifiuti editoriali alzando ostinatamente il tiro e presentando opere sempre più complesse, stratificate e assolute; da uno Shakespeare messo a processo con accusa di plagio, a Dante che si vede rifiutare la Commediada un editor che la vorrebbe scritta in latino e preferirebbe tagliare le parti in cui si fanno troppi "nomi altolocati". Tutto è surreale, tutto brulica di situazioni improbabili: i grandi del passato vengono giudicati con l'occhio dell'editoria contemporanea e non passano l'esame. In parallelo, Rossari costruisce un percorso nella filiera, come si diceva: varie tipologie di scrittori inediti, di traduttori, di autori in fase di stallo si danno il cambio in una serie di "prose della crisi": c'è lo scrittore che non scrive, il traduttore che traduce libri che sono più brutti di quelli che gli editori continuano a rifiutargli, c'è lo scrittore perfezionista che si ostina a rimaneggiare il suo testo e c'è quello che, per sbarcare il lunario, trova il lavoro più assurdo di cui mi sia mai capitato di leggere. C'è molto del Rossari-uomo in queste figure, anche se naturalmente l'autofiction è mascherata dal suo grande sense of humor, che tira ogni situazione allo spasimo. Da ultimo, Rossari trova il tempo di fare i conti con alcuni dei suoi padri: dal bizzarro racconto in cui uno scrittore va a visitare, in un lontano futuro, la città di Kafkania (e qui c'è tutto un ragionamento sull'iconizzazione), a un'abiura dell'influenza beat, fino a una lucida e amara riflessione sul lascito culturale e politico degli anni di piombo. Uno scrittore tace per otto anni, e quando ricomincia a parlare lo fa con un libro in cui fa i conti con se stesso e con la sua grande ossessione: la scrittura. Perché si scrive? Per chi? Da chi? Ha ancora senso farlo? E, se sì, come lo si deve fare? Sono queste le domande – terribili – che danno forma a L'unico scrittore buono è quello morto. Le risposte arrivano in modo scanzonato, guascone: Rossari rimane comunque uno scrittore che ha nella penna la grande capacità di intrattenere. Ma il ritratto dell'essere umano che ha il tarlo della scrittura è amaro e, a ben guardare, il libro finisce laddove era cominciato: "Sono sceso per strada e l'ho tracciata su un muro, a lettere cubitali. (…) Oggi (…) sono contento che da qualche parte, su un muro della mia città natale, riposi la parola 'io'". Andrea Tarabbia

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Conosci l'autore

Marco Rossari

1973, Milano

Marco Rossari scrittore e traduttore, è nato a Milano nel 1973. Si è laureato con una tesi su Charles Bukowski. Ha lavorato in case editrici e in libreria e collabora con numerose riviste. Ha tradotto Alan Bennett e la biografia su Chet Baker, oltre a vari titoli di Charles Dickens, Mark Twain, Percival Everett, Dave Eggers, James M. Cain, Hunter S. Thompson. Ha pubblicato per Fernandel il romanzo Perso l’Amore (non resta che bere) e il libro di poesie L’amore in bocca (Fernandel, 2003 3 2007) e la raccolta di racconti Invano veritas (e/o, 2004). Fra i suoi ultimi libri: L’unico scrittore buono è quello morto (e/o 2012), Piccolo dizionario delle malattie letterarie (Italo Svevo, 2016), Le cento vite di Nemesio (e/o 2016), Bob Dylan....

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