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Rievocando nel 1974 in Approches de l'imaginaire l'esperienza del Collège de sociologie, condivisa con Bataille e Leiris nel 1937-39, Caillois scriveva: "Eravamo d'accordo sull'importanza eminente, per non dire decisiva, del sacro, nelle emozioni degli individui come nelle strutture della società". All'esperienza del sacro, certo, ognuno dei tre giovani fondatori del Collège imprimeva un'accentuazione del tutto personale. Per Bataille, era la via del ritorno alla "totalità perduta"; per Leiris, la sofisticata chiave interpretativa, mutuata all'etnologia, che gli permetteva di leggere in una prospettiva inedita i propri ricordi d'infanzia; per Caillois, quel che gli permetteva di misurare la distanza tra le remote società, arcaiche o primitive, studiate da Mauss, da Dumézil, da Granet, e quella società moderna che, nel suo saggio-manifesto dell'anno precedente, Il vento d'inverno, lui stesso aveva definito "divenuta profana all'estremo".
Lo sguardo che il Caillois della fine degli anni trenta posa sul mondo contemporaneo deve la sua affilatissima severità a una pleiade di maestri del secolo precedente: Stirner, Nietzsche, Baudelaire, Rimbaud. È Baudelaire, con la sua lucidità critica mascherata da impeccabile dandysmo luciferino, a esercitare l'azione più determinante. Nelle pagine dei suoi Journaux intimes riaffiora costantemente la nostalgia del sacro, elemento di redenzione e di coesione che le società moderne hanno irreparabilmente smarrito: "Il misticismo, anello di congiunzione tra paganesimo e cristianesimo. Il paganesimo e il cristianesimo sono la prova l'uno dell'altro. La Rivoluzione, attraverso il sacrificio, conferma la superstizione. (...) C'è una Religione universale, fatta per gli Alchimisti del Pensiero, una Religione che nasce dall'uomo considerato come memento divino. (...) Anche se Dio non esistesse, la Religione sarebbe ancora Santa e Divina ". Questa nostalgia di Baudelaire per una società aristocratica e fortemente "sacralizzata" è al centro del Vento d'inverno, ispira e connota con le sue geniali intuizioni la sfida che il venticinquenne Caillois lancia contro la volgarità e l'egoismo dei "sazi" e dei "trionfanti"; porta però con sé l'esigenza di una riflessione che la fondi e la prolunghi razionalmente. Caillois non ignora quanto, nel decennio che sta vivendo, termini come "mito" e "fede", "rito" e "sacrificio", "nuova religione" e "mistica" siano sfruttati dalle organizzazioni giovanili fasciste e naziste, costantemente paragonate dai loro ammiratori a ordini monastici impegnati nell'esaltante crociata antimaterialistica; soltanto una disamina rigorosamente razionale e scientifica delle forme del sacro può tracciare una linea di confine inequivocabile tra la retorica, suggestiva e inquietante, del fascismo spiritualista, e la fascinazione per il numinoso che accomuna i fondatori del Collège de sociologie. È proprio questa disamina che Caillois mette a punto nell'anno che segue la stesura del Vento d'inverno. Nasce così L'uomo e il sacro, concentrato degli anni di studio trascorsi all'École des Hautes Études e di vaste letture etnografiche che spaziano dall'antica Grecia all'antica Cina, dalle tribù indiane d'America agli eschimesi, dai maori alla Roma repubblicana.
Lo sforzo di Caillois è quello di pervenire a una sintesi partendo da una sterminata mole di materiali analitici. Dai suoi attenti raffronti, la fisionomia del sacro emerge fissata nelle costanti che la caratterizzano attraverso i secoli e sotto le più varie latitudini. Nelle società tribali, come nella Grecia delle città-stato, nella Roma repubblicana e nella Cina dei clan, è la dicotomia sacro-profano a organizzare e a scandire la vita comunitaria. Il sacro, ambito di forze misteriose alle quali si chiede protezione e assistenza, ma dalle quali è anche necessario proteggersi costantemente, va tenuto ben distinto dal profano: ogni mescolanza tra i due ambiti minaccia non solo l'ordine della vita associata ma quello dell'intera natura, dell'universo. SullÆordo rerum, che un rigido sistema di divieti e di riti protegge da ogni violazione intempestiva, grava una minaccia terribile: quella del regresso al caos primigenio, alla remota età di confusione dalla quale gli antenati e gli eroi, con strenua fatica, fecero emergere stabili strutture familiari e sociali. Queste strutture rischiano però con il tempo di logorarsi e perire, come se la loro stessa stabilità degenerasse in inerzia: per rivivificarle, il solo rimedio è una provvisoria reimmersione della società intera nel caos dal quale è sorta, mediante la festa. Nella festa ogni divieto è non solo infranto, ma rovesciato, ogni trasgressione è prescritta, e la logica dello spreco e della distruzione succede a quella dell'accumulo avveduto delle risorse. Dalla festa la società esce ringiovanita e rafforzata, pronta a un nuovo ciclo del suo destino, scritto da sempre nei più profondi istinti umani, in pulsioni biologiche ben prima che psicologiche e religiose.
È proprio a proposito della festa che la riflessione di Caillois suggerisce l'accostamento più intrigante tra le società tradizionali, studiate dagli etnologi, e la società moderna. Apparentemente in quest'ultima, che ha ridotto e interiorizzato al massimo lo spazio del sacro, la festa non esiste più: le "vacanze" dell'individuo, momento di rilassamento anodino e isolato, non ne conservano nemmeno il più vago ricordo. Ma c'è, nella vita delle società industriali e organizzate, un momento in cui la distruzione programmata e massiccia sostituisce l'accumulazione delle ricchezze, un momento in cui tutte le regole morali sono rovesciate e il più grave dei crimini, l'assassinio, prescritto come un sacro dovere: è il momento della guerra. Su questa intuizione, enunciata verso la fine de L'uomo e il sacro, Caillois torna in un saggio del 1949, inserito in appendice: in pagine sconvolgenti allinea testimonianze di protagonisti della storia e di scrittori che hanno vissuto il primo e il secondo conflitto mondiale come un'esperienza di mistica esaltazione, di sacra ebbrezza, di totale vertigine. Isolato dal sistema di contrappesi che preservava le società tradizionali dalla distruzione completa, il momento della festa, dell'irrompere del sacro nel profano, diventa per la società moderna la più mostruosa delle minacce: la presenza del pericolo atomico, Caillois ne ha una lucida percezione, conferisce poi a questa minaccia un carattere di catastrofe definitiva ignoto alla storia dei secoli passati. Se per un attimo poniamo il Caillois di questa appendice del 1949 accanto all'autore del Vento d'inverno, ci pare di vederli separati da un abisso: quella risacralizzazione del mondo profano che pareva così auspicabile al Caillois ventiseienne, la storia si è incaricata di realizzarla in una forma atrocemente degradata, mettendo in causa la sopravvivenza stessa dell'umanità, e il Caillois del 1949 lo comprende perfettamente.
Eppure, tra il primo e il secondo Caillois, gli elementi di continuità non sono meno evidenti delle differenze: la nitidezza impeccabile dello stile, l'eleganza dell'argomentazione, la ricerca, come valore supremo, del rigore. Sono i tratti che caratterizzeranno Caillois sino al 1978, sino alla morte, conducendolo dalla giovanile tentazione eversiva allo studio delle linee di continuità tra i fenomeni biologici e l'immaginario umano, alla frequentazione della mineralogia. In sintonia con questi interessi, si afferma la prossimità con l'opera di Borges, che Caillois contribuirà più di chiunque altro a far conoscere in Europa. Per ripercorrere questo suo itinerario, il saggio introduttivo di Ugo M. Olivieri a L'uomo e il sacro è uno strumento prezioso, ricchissimo di informazioni di prima mano e di accostamenti illuminanti.
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