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Il viceré di Ouidah - Bruce Chatwin - copertina
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Il viceré di Ouidah
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Il viceré di Ouidah - Bruce Chatwin - copertina
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Descrizione


Più di un secolo dopo la morte di un celebre negriero, Dom Francisco da Silva, i suoi numerosi discendenti si riuniscono a Ouidah, nel Dahomey, «per onorare la sua memoria con una messa di requiem e un pranzo». Sono una folla variegata di poveri e di ricchi, che hanno un rimpianto in comune: lepoca della tratta degli schiavi, «perduta età delloro in cui la loro famiglia era stata ricca, famosa e bianca ... Ognuno di loro teneva appeso il ritratto di Dom Francisco fra le immagini dei santi e della Vergine: attraverso di lui si sentivano collegati alleternità». Da questa scena di grottesca maestà prende lavvio una narrazione che ci riconduce ai primi anni dellOttocento, quando il giovane brasiliano Francisco da Silva si imbarcò per cercare fortuna in Africa. Da quel momento si snoda dinanzi a noi una sequenza di fatti che ci cattura come un incessante delirio. Il re pazzo del Dahomey, che poggia i piedi sulle teste mozzate di un ragazzo e di una ragazza; le sue feroci Amazzoni, che vanno in caccia di vittime da vendere come schiavi; i teschi dei nemici minori del re ammucchiati su vassoi di rame, mentre quelli «dei grandi erano avvolti nella seta e conservati in ceste imbiancate»; il negriero tuffato nellindaco per renderlo uguale ai negri; il sordo lamento di una reclusa centenaria; Dom Francisco in rovina che fa suonare insieme i suoi carillon svizzeri. Sono immagini che lampeggiano un attimo e si mescolano ai colori invadenti della natura, dei muri rosa scrostati, dei costumi di una Semiramide dellOpera di Rio che finiscono indossati dai cortigiani del re del Dahomey. Con magistrale precisione, Chatwin ha ricomposto nella sua prosa asciutta e vibrante le schegge disperse di una storia vera che ha landamento di un inestricabile sogno, punteggiato di atroci sorprese. Le voci del passato si ritrovano qui, insieme ai discendenti del negriero Francisco da Silva, «viceré di Ouidah», a spargere «cibo, sangue, piume e Gordons gin sul letto, tomba e altare del Morto».
Il viceré di Ouidah è apparso per la prima volta nel 1980.
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Dettagli

6
1991
2 gennaio 1991
150 p.
9788845907975

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Maurizio Crispi
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Il vicerè di Ouidah (titolo originale: "The Viceroy of Ouidah", 1980) di Bruce Chatwin (Adelphi, 1983) nacque da un'idea dell'autore quando, a seguito d'una sua visita nel Dahomey, apprese la storia del negriero Francisco Felix de Sousa, che aveva stabilito ai primi dell'800 un fiorente traffico di schiavi sulla costa del Benin (in una zona che ancora oggi è chiamata, non a caso Costa degli Schiavi). Vari accenni a questa visita li ritroviamo in altri libri dello stesso Chatwin (ad esempio in "Che ci faccio qui?"), dove apprendiamo i rischi e le difficoltà incontrate nel raccogliere il materiale (venendo il Dahomey interessato in quello stesso periodo da un colpo di Stato) e le perplessità di critici ed editori verso l'opera (ritenuta "barocca" ed eccessivamente violenta). In seguito, tuttavia i diritti di realizzazione di un film ispirato all'opera vennero acquistati da Werner Herzog, che ne ricavò un film (che vede tra l'altro la collaborazione di Klaus Kinski nelle vesti di Dom Francisco), dal titolo Cobra verde. Sempre nel suo libro "Che ci faccio qui?", una raccolta di appunti diaristici di viaggio e di abbozzi di interviste con personaggi più o meno celebri, Chatwin descrive alcune fasi della realizzazione del lungometraggio. Sin dall'incipit, il romanzo evoca un'ambientazione estranea al lettore occidentale, schiudendogli l'immagine di un'Africa oscura e lacerata dal contrasto tra la modernità e il passato. Ed è proprio sul continuo rimando al passato che Chatwin costruisce una storia fatta di sangue e sofferenza, uniche costanti in un mondo solo apparentemente in mutamento. Sembra cogente la riflessione che l'unica possibilità per il protagonista di integrarsi in un ambiente ostile e così dissimile da quello da cui proviene, sia quello di assumere molte delle abitudini della popolazione locale, creando una sintesi unica tra Brasile (il paese di provenienza) e l'Africa nera.

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Voce della critica


(recensione pubblicata per l'edizione del 1991)
recensione di Scatasta, G., L'Indice 1991, n. 5

Pubblicato in Inghilterra nel 1980 e in Italia per la prima volta nel 1983, "Il viceré di Ouidah" viene ora opportunamente ristampato da Adelphi, sempre nella traduzione di Marina Marchesi. Si tratta a mio parere del migliore romanzo di Chatwin, dalla "prosa insopportabilmente barocca" (come lamentava un recensore anglosassone perplesso all'uscita del libro) e libero da quei fastidiosi vezzi stilistici e da quell'atteggiamento fra il decadente e lo snob che sono probabilmente l'aspetto più deteriore della produzione di Chatwin. "Il viceré di Ouidah" non possiede la struttura stentata, disomogenea, inquieta che era il limite e la forza di "Le vie dei canti", segno da una parte dell'impossibilità di scrivere un libro sul nomadismo e dall'altra della paura dell'autore di morire prima di concluderlo. Si tratta dunque di un romanzo di facile lettura, biografia romanzata dello schiavista brasiliano Francisco da Silva, vissuto per molti anni in Africa a metà del secolo scorso: la narrazione inizia e termina cent'anni dopo la morte di Francisco con la celebrazione di una messa e un pranzo in suo onore organizzati dai suoi discendenti "sempre più scuri di pelle e ormai più numerosi delle cavallette, sparsi da Luanda al Quartiere Latino" ("Il viceré di Ouidah", p 12).
Se il segno distintivo di "Le vie dei canti" era il nomadismo della narrazione che fungeva da contrappunto all'argomento del libro, "anche in "Il viceré di Ouidah" la pulsione che spinge il protagonista a muoversi finché gli è possibile è l'ansia del viaggio, la ricerca disordinata di una conoscenza istintiva e totale. Ma un altro aspetto di "Le vie dei canti", il suo interesse per la contaminazione, il suo carattere meticcio, è presente anche in questo romanzo precedente, sul piano dello stile più che del contenuto: il linguaggio di Chatwin è sincretista, unisce immagini e parole di struggente dolcezza e di atroce crudezza nella stessa frase, con uno stile che lo stesso autore definisce "spoglio e cesellato". C'è sempre nelle frasi di Chatwin un elemento incongruo, una presenza che non aiuta a conferire alla frase consenso immediato ma la invita piuttosto a sfuggire a esso. Uniti al suo gusto per l'accumulazione, mantenuti appena un po' più del necessario per farli apparire fuori luogo, apparentemente inutili e dunque significativi, gli elementi incongrui fanno la narrazione, la caratterizzano come una storia di Chatwin: i carillon svizzeri che insieme a "divani di jacaranda, un servizio da toilette di opalina, un letto goanese", un pianoforte e un biliardo vengono acquistati dal protagonista per la sua casa nel Dahomey; i costumi della "Semiramide" di Rossini indossati da una corte africana; "cibo, sangue, piume e Gordon's Gin" sparsi sul letto di Francisco morto; l'altarino "con Cristo e gli Apostoli, che sedevano a tavola con davanti un pollo di gesso. Gli occhi del Signore erano color turchese e la testa era irta di veri capelli rossi" (p: 48); le profezie dello schiavista, frutto di un raggelante delirio.
Chatwin riesce a creare un personaggio negativo ma al tempo stesso "forte", sa renderlo affascinante nella sua potenza, tanto da farci quasi affezionare a lui nonostante tutto o quasi, nella sua vita ci ripugni. E non a caso nel testo compaiono dei riferimenti a una delle 'villains' più affascinanti della letteratura inglese, Lady Macbeth: "Lavami le braccia! Guarda! Guarda! Queste macchie mi mangiano le braccia!" (p. 142); "Se ne stava a fissare accigliato le sue mani e gridava: 'Acqua e sapone'" (p. 119)
Il mondo in cui il protagonista vive non è un mondo caduto, ma solo perché non c'è nulla da cui cadere, uno stato edenico a cui tornare. Non è tale il Brasile, terra natale di Francisco, anche se alla fine il vecchio schiavista muore letteralmente dalla voglia di tornarvi. E neppure l'infanzia è un mondo felice nel ricordo, infestata com'è dalla fame, dalla carestia e dalla morte. Sola speranza è il movimento frenetico, la pulsazione del cuore e dei genitali, la strada dell'istinto. Ma salvezza, comunque non ce n'è . Il mondo è impregnato di inganni e tradimenti, regnano solo e ovunque sangue e torture. Il mondo di Francisco è quello che ha conosciuto a sette anni, quando viveva con un prete che lo baciava in una camera da letto "che puzzava d'incenso e di fiori morti". Se da una parte c'è un re che non riesce "a resistere alla tentazione di accumulare teschi" con la sua corte di amazzoni guerriere che strappano un mormorio di disperazione anche in Francisco quando le vede strangolare dei bambini di un villaggio nemico, dall'altra c'è il mondo altrettanto spietato del commercio e dello schiavismo, europeo o brasiliano. E che il mondo non sia cambiato, che il tradimento e l'inganno continuino a dominarlo, traspare dalla vicenda di una delle figlie di Francisco, abbandonata dall'inglese che aveva amato, o, per arrivare alla realtà contemporanea, dalla figura del tenente colonnello Zossoungbo Patrice che, mentre nessuno lo vede, fa un gesto d'irrisione verso il ritratto del presidente dell'attuale Benin, si lascia corrompere anche in cambio di poco denaro e schiaccia indifferentemente con i suoi stivali una begonia (p. 23) o uno scarafaggio (p. 149).
Né l'amore, carnale, filiale, paterno o altro, redime il mondo, anche se per breve tempo può sembrare così. L'amore fin dall'inizio del romanzo è visto nelle sue forme più degradate: "La verginità veniva violata con la stessa facilità con cui si apriva un baccello. [La figlia di Francisco] conosceva fin da bambina il riso volgare delle donne quando fiutavano lo straccio macchiato di sangue. I suoi fratellastri avevano cercato di violentarla. Le sue sorellastre facevano una smorfia di disprezzo se erano avvicinate da qualcuno più scuro di loro, ma erano sempre pronte a fare le puttane con i marinai bianchi" (p. 36). L'unica "speranza di consolazione" per Francisco "in quelle notti inquiete era il gioco di violentare vergini". Come il Kurtz di Conrad, dunque, Francisco da Silva non torna dal suo viaggio nel cuore della tenebra ma scopre che l'orrore è ovunque e non c'è viaggio n‚ vita che non abbia in sé quella tenebra, quel lato oscuro che si può placare col nomadismo, fisico e culturale insieme, ma mai vincere.
Viene a questo punto il sospetto che Chatwin sia un manierista, un cultore dell'orrido che usa materiale di scarto (sangue, sesso, violenza) per creare, con distaccato snobismo, un mondo "orribile che ha dentro di sé un cuore selvaggio", come direbbe Lula di "Cuore selvaggio", ma purtroppo il mondo di Chatwin non è solo una finzione narrativa, come dimostrano due brani contenuti in "Che ci faccio qui?", collegati in modo più o meno diretto a "Il viceré di Ouidah". Nel primo, "Un colpo di stato", Chatwin, in cerca di materiale per il suo libro su Francisco da Silva, viene coinvolto in un tentativo di colpo di stato, scambiato per un mercenario, imprigionato, minacciato di fucilazione, processato e liberato. Infine, a cena con un francese conosciuto in quella circostanza, analizza le varie versioni del colpo di stato, ma tutte gli appaiono false e ingannevoli. Il secondo brano, "Werner Herzog nel Ghana", riferisce la visita di Chatwin sul set del film "Cobra verde di Herzog, tratto da "Il viceré di Ouidah". In questo brano ci sono preziose indicazioni sullo stile di Chatwin ("Poiché era impossibile scandagliare la mentalità misteriosa dei miei personaggi, mi sembrava che restasse soltanto una soluzione: raccontare la storia attraverso una sequenza di immagini cinematografiche", p. 173), ma anche uno squarcio sul mondo reale che è insieme sintomatico dello stile contaminato di Chatwin di cui si è detto, dolce e crudele insieme: "Il soldato che mi aveva in consegna tubava melodiosamente: 'Ils vont tuer, massacrer mˆme'".

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Conosci l'autore

Bruce Chatwin

1940, Sheffield

Scrittore e viaggiatore britannico, Bruce Chatwin è diventato celebre per i suoi racconti di viaggio. Dopo aver compiuto gli studi presso il Marlborough College, nello Wiltshire, inizia a lavorare presso la prestigiosa casa d'aste londinese Sotheby's, diventando in poco tempo uno dei più competenti esperti di arte impressionista. A ventisei anni abbandona il lavoro e s'iscrive all'università di Edimburgo per approfondire la sua passione per l'archeologia. Dopo gli studi inizia a viaggiare per lavoro: prima in Afghanistan, poi in Africa, dove sviluppa un forte interesse per i nomadi e il loro distacco dai possedimenti personali.Nel 1973 viene assunto dal «Sunday Times Magazine» come consulente per temi di arte e architettura. Questo nuovo impiego gli...

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