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Violenza e ordini sociali. Un'interpretazione della storia - Douglass C. North,John J. Wallis,Barry R. Weingast - copertina
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Descrizione


Tutte le società devono confrontarsi con la violenza. Il modo in cui esse governano e limitano la violenza ha implicazioni enormi per il loro sviluppo economico e politico. In questa originale interpretazione della storia umana gli autori descrivono due grandi ordini: gli stati naturali e le società moderne ad "accesso aperto". Gli stati naturali, che hanno caratterizzato la storia umana durante gli ultimi diecimila anni, limitano la violenza attraverso la manipolazione politica dell'economia da parte di élite chiuse. Dalla rivoluzione industriale in avanti, in alcune società si è sviluppato un nuovo ordine sociale che allo stesso tempo contiene la violenza e garantisce la crescita attraverso un "accesso aperto" alle organizzazioni economiche e politiche. Nel descrivere il passaggio dall'uno all'altro modello il libro propone un quadro concettuale di ampio respiro, illustrando le dinamiche del cambiamento e mostrando come istituzioni sociali durature e impersonali possano governare un mondo imprevedibile e in costante mutamento.
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Dettagli

2012
8 marzo 2012
426 p., Rilegato
9788815237590

Voce della critica

  Il posto in cui si colloca il testo di North, Wallis e Weingast (due economisti e un politologo) si manifesta da subito. Il titolo del volume, infatti, non tiene celate le finalità: si fa riferimento alla violenza, all'ordine sociale e a come queste due sfere diventino centrali nell'elaborazione di un'interpretazione della storia. In sintesi, dunque, siamo di fronte a un libro che propone una lettura del cambiamento politico, sociale ed economico nel lungo periodo, come espressamente chiosa Michele Alacevich nella prefazione all'edizione italiana. Se il filone di studi su cui insiste il volume è classico, non mancano alcune peculiarità dell'opera, da cui possiamo partire per sintetizzarne l'articolazione. La prima attenzione ricade sul team degli autori. Il trio è guidato da Douglass C. North, celebre economista, insignito nel 1993 del premio Nobel. Non è ovviamente un caso che sia North a mettere le mani in un piatto che, a prima vista, non rientra nel menu classico dell'economia. Egli è infatti uno dei più vivaci esponenti dell'approccio economico allo studio delle istituzioni, finalizzato a identificare come le norme legali, i vincoli formali e informali, le convenzioni e le convinzioni influenzino le performance e il sistema economico nel suo complesso. È evidente l'ampliamento della prospettiva d'analisi rispetto all'economia neoclassica, ragione che ha spinto gli accademici di Svezia a premiarlo: il rinnovamento impresso da North allo studio della storia economica e dei metodi quantitativi per l'analisi del cambiamento istituzionale ed economico sono alla base del riconoscimento. Di qui deriva la cornice concettuale di Violenza e ordini sociali, un saggio che indaga il rapporto fra istituzioni e organizzazioni nel dare forma al nesso tra sviluppo economico e articolazione del sistema politico e nel disciplinare il controllo della violenza. Per centrare l'obbiettivo, non dei più semplici, gli autori elaborano un testo piuttosto esteso, la cui struttura ricalca il quadro concettuale dell'opera. Nel primo capitolo viene messa in forma la cassetta degli attrezzi. Chiariti i concetti di istituzione, organizzazione, violenza e competizione, gli autori entrano nel vivo. Innanzitutto, vengono identificati tre ordini sociali nella storia umana: l'ordine dei cacciatori-raccoglitori, l'ordine ad accesso limitato e l'ordine ad accesso aperto. Sono in particolare questi ultimi due ad essere centrali nell'analisi. L'ordine ad accesso limitato è tipico di quelle situazioni in cui la politica manipola l'economia, sulla base dell'azione di un'élite che garantisce privilegi, un ambiente sociale relativamente sicuro grazie all'esistenza di patti di astensione dalla violenza, rapporti di potere di tipo relazionale e particolaristico, controllo dell'economia e del commercio. L'ordine aperto, per contro, è prossimo allo stato moderno: la violenza è monopolizzata da istituzioni terze, lo stato costituisce un'organizzazione indipendente e impersonale, che combina persistenza e cambiamento, alla luce di una certa efficienza adattativa. Il core della parte più analitica del volume, contenuta nei capitoli centrali, è dedicato a ricostruire i meccanismi in base a cui, in determinati contesti e in presenza di particolari circostanze, si attivano processi di transizione da un ordine sociale chiuso a uno aperto, ovvero da situazioni a economia ristagnante e vulnerabile agli shock esterni, a situazioni a economia vivace, aperta, in presenza di sistemi politici partecipati, in cui si riconoscono società civili articolate. Il passaggio da un ordine all'altro è mediato da tre "condizioni di soglia": la costituzione di uno stato di diritto, a partire dai membri dell'élite; la creazione di organizzazioni "perpetue", la cui vita non dipende dalla vita dei loro membri, nella sfera pubblica e privata; il controllo politicamente accentrato dello stato militare. La combinazione di queste tre condizioni attiva, a sua volta, il consolidamento di scambi impersonali e la tendenza a garantire maggiore apertura nell'accesso alle organizzazioni e istituzioni. Per esigenze di sintesi non approfondiamo ulteriormente il dettaglio del marchingegno analitico, ben reso da una prosa fluida anche se con alcuni passaggi a volte troppo "concettuali". Basti aggiungere che gli autori confessano da subito l'intenzione di non voler avanzare una teoria formale, ma un quadro interpretativo, opportunamente applicabile da chi vorrà sporcarsi le mani con la ricerca. Non che i tre non lo facciano del tutto: il libro è corredato da alcuni dati relativi a serie storiche, richiamando, seppur in modo temperato, la cliometria, ed è reso vivace da una serie di esempi e casi emblematici, alcuni storici ed eruditi, altri più legati all'attualità (all'attenzione verso Francia, Inghilterra e Stati Uniti si accompagnano alcuni riferimenti ai paesi in via di sviluppo). Al di là dei dettagli, il volume di North e colleghi può essere approcciato attraverso tre vie, che forniscono anche le linee guida per alcuni spunti di riflessione, in parte critica. Innanzitutto, pare che la parte centrale dell'analisi, ovvero quella dedicata alla transizione da ordine chiuso ad aperto, addensi in sé i punti di forza e di debolezza dell'intero saggio. Infatti, l'analisi ben si presta a mettere in luce i meccanismi del passaggio e, eventualmente, della diffusione dei paesi ad ordine aperto. Viceversa, ciò che rimane in ombra sono i meccanismi di attivazione del processo: come scatta l'attivazione delle condizioni preliminari? L'interrogativo rimane parzialmente inevaso. In secondo luogo, è pregevole il tentativo, ben riuscito, di evitare di spiegare fenomeni sociali complessi con poche variabili unidimensionali, rifuggendo l'approccio teleologico e evoluzionista che ha contraddistinto l'età dell'oro degli studi sulla modernizzazione, ma anche alcuni recenti contributi dell'economia dello sviluppo (si pensi alla stagione del Washington Consensus e all'idea che esistessero ricette per lo sviluppo buone per tutte le occasioni). Non è un caso che gli autori insistano sulle transizioni mancate o fortemente incompiute: il passaggio all'ordine aperto non è necessitato. Il problema dell'evoluzionismo, tuttavia, scacciato dalla porta, a tratti rientra dalla finestra. È pienamente convincente la declinazione al negativo, ovvero relativa ai contesti che non riescono ad abbandonare l'ordine naturale, meno nei casi in positivo. In altri termini, un'ottica di analisi finalizzata a mettere in luce le differenze tra i paesi a ordine aperto poteva essere maggiormente richiamata. Infine, gli autori suggeriscono una maggiore integrazione fra le scienze sociali, sostenendo l'opportunità di dare vita a nuovi programmi di ricerca. Raccogliere questa sfida sarebbe quantomai opportuno. Non mancano nelle scienze sociali studiosi che guardano agli economisti con lenti deformate: ora in soggezione di fronte alla loro capacità di costruire modelli formali, ora angosciati dalle loro presunte intenzioni imperialiste (colonizzare, con il metodo di analisi dell'economia, campi di studio tradizionalmente propri della sociologia o di altre discipline). Né l'una posizione né l'altra aiutano a centrare l'obiettivo invocato da North e colleghi. In linea di massima, infatti, le scienze sociali danno buoni esiti quando smussano i loro confini ed entrano in dialogo. Il dialogo, però, presuppone reciproca disponibilità all'ascolto (condizione che aiuta a sgombrare il campo dal timore di diventare terreno di conquista). Da questo punto di vista, colpisce che l'esplorazione condotta da North e colleghi in terreni poco arati dagli economisti non abbia prodotto l'incontro con chi quei terreni è più solito frequentarli. Giusto per fare qualche esempio: un confronto più dettagliato con la letteratura sulla formazione dello stato moderno o di alcuni classici del pensiero sociologico, quali Ferdinand Tönnies e Talcott Parsons, nelle parti in cui si costruisce la dicotomia tra ordini chiusi e aperti, avrebbe dato al testo maggiore spessore. Ma siamo sicuri che per North e colleghi la maggiore conoscenza reciproca sia, allo stesso tempo, precondizione e output (potremmo dire un'esternalità positiva) di un nuovo paradigma di ricerca nelle scienze sociali. E la conoscenza reciproca è cosa impegnativa, anche per i premi Nobel. Luca Storti

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