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Libro di candele. 267 vite in due o tre pose
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Libro di candele. 267 vite in due o tre pose - Eugenio Baroncelli - copertina
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Libro di candele. 267 vite in due o tre pose

Descrizione


Le brevi o brevissime biografie, stilizzati ritratti di personaggi, o grandi o sconosciuti, rappresentati nella loro futilità, piacevano a quegli scrittori Borges, Savinio - infatuati del carattere paradossale del tempo, quando del suo immenso mistero fisico e metafisico mostra solo per gli uomini una piccola smorfia beffarda. Esistenze manifestate in un attimo infinito che solo l'inventiva, la cultura, l'umorismo possono avere la rapidità di fermare. Queste 267 vite, scritte da Eugenio Baroncelli, frutto di un collezionismo intellettuale o del desiderio di aver "vissuto la vita degli altri" e ancor di più il loro capriccio, sono raccolte in sedici sezioni, smilze categorie in cui lo scrittore mostra crudelmente che si possano riassumere in barba alla vanità. Dagli Amanti ai Fumatori di sigaro; da Come le foglie a Da qui all'eternità; Diavoli e maghi, Freaks, Scomparsi, Suicidi, e molte altre fantasie ancora, dedicate "ai fantasmi che hanno un sacco di tempo per leggere perché nel tempo non vivono".
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Dettagli

2008
6 novembre 2008
280 p., Brossura
9788838923364

Valutazioni e recensioni

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alexlocatelli
Recensioni: 5/5

originalissomo. oltretutto per me, siciliano, è commovente il fatto che, tra queste 267 vite, venga ricordata quella di Elide Vetri, la giovane donna morta ad Enna e ritrovata, a casa, mummificata...

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Massimo Gatta
Recensioni: 5/5

Pochi fronzoli: semplicemente stupendo.

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Recensioni

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Voce della critica

Libro di candele è un libro strano, inclassificabile, bellissimo. E particolarmente inattuale, perché non è un romanzo, perché non appartiene a un genere, perché l'autore non è giovane (classe 1944), ma, avendo un solo libro alle spalle (Outfolio, Manni, 2005), pare quasi uno scrittore esordiente, pur senza avere quelle caratteristiche tali da incuriosire il lettore di rotocalchi e supplementi culturali, tali cioè da far sorgere il "caso letterario".
E allora quali sono le frecce migliori nella ricca faretra di Libro di candele? Innanzitutto la scrittura: forbita, tacitiana, vicina al classicismo novecentesco più avvertito. Poi l'erudizione, vera e fittizia, e il gusto della citazione e dell'allusione colta che permeano tutto il testo ma emergono, con esibita evidenza, nella ricca zona paratestuale, che comprende due dediche, una dell'autore a se stesso e una "ai fantasmi, che hanno un sacco di tempo per leggere perché nel tempo non vivono"; le epigrafi, una da Kavafis, un'altra da Enquist e una terza anonima, dunque d'autore; l'Avvertenza siglata dall'autore, nella quale si sostiene che "queste biografie, o piuttosto simulacri di biografie, sono frutto del caso: quello della biblioteca e quello della mia memoria, se non sono lo stesso"; un Incipit che è quasi una brevissima prefazione, firmato da un Luigi Leone Carbone – ovvero, ancora una volta, l'autore occultato da un anagramma – e che racchiude la chiave di lettura del libro: "Non c'è scrittore più autobiografico del biografo".
L'invadenza programmatica dell'autore (anch'egli biografato nel libro, come i genitori e altri parenti) non si spiega come ipertrofia dell'io perché conviene piuttosto pensare a una notevole capacità di esercitare la pietas verso gli uomini e le donne di cui si narra la vita e, quasi sempre, anche la morte. Una pietas che, evidentemente, non scade in manierato sentimentalismo e funziona meglio se la si esercita innanzitutto su se stessi e se rivela, a ogni momento, il suo risvolto autoironico: autoironia che molto spesso si impernia sul ghiribizzo enigmistico.
Libro di candele, dunque, parla di vite, e lo fa con il gusto classicheggiante della brevitas, sì da risolvere una vita "in due o tre pose", con un tono che rinvia al grande Pontiggia di Vite di uomini non illustri. Ma parla anche di morti, e lo fa in modo serio, né grottesco né granguignolesco (come oggi va di moda), ma senza la squadernata liricità della Spoon River's Anthology o il gusto un po' algido della contraffazione tipico delle Vite immaginarie di Schwob.
La misura breve consente a Baroncelli di costruire una vera e propria enciclopedia di vite e morti che, coerentemente con il suo travestimento erudito, è organizzata in sezioni. Non è il caso di analizzarle nel dettaglio ma, piuttosto, di segnalare il gioco fascinoso e ben dissimulato delle simmetrie sorridenti e dei rispecchiamenti trionfanti. Incontriamo, infatti, "Irma Brandeis, la donna che amò Eugenio Montale" ma anche "Eugenio Montale, l'uomo che amava le donne ebree"; l'inventato "Brewster Mc Cloud, veleggiatore"di un memorabile film di Altman (tradotto in Italia con lo stupido titolo Anche gli uccelli uccidono) e l'autentico Simeone stilita, il santo che però "nel 1965 fu avvistato a Manhattan, che sgambettava dietro uno shake", cioè dentro a Simon del desierto di Buñuel; Atahualpa a Hernán Cortés; il fittizio Ciro Fatica e l'autentico Ottavio Fatica; Pancho Villa e Álvaro Obregón, l'uomo che l'uccise, ma anche "Ambrose Bierce, il gringo che si innamorò di Pancho Villa": l'attore Pierre Batcheff e la regista Maya Deren, entrambi catalogati come persone che morirono due volte; "Cary Grant, l'uomo che visse due vite" cui farà eco, più avanti, "Archibald Alexander Leach, figlio irriconosciuto", dato che quest'uomo, "un giorno Leach, un altro Grant, fu sospettoso di entrambi. In questa vita morì ottantaduenne a Davenport, Iowa. Nell'altra anche, se i nostri sogni muoiono con noi". E pure John Wilmot, conte di Rochester, è per Baroncelli un "uomo che visse due vite", quella in cui scagliò i suoi strali satirici contro Carlo II e quella, più breve, in cui piamente abiurò: "Ma il severo Samuel Johnson gliene accredita una sola, inutile e immeritevole".
La rassegna dei personaggi, e soprattutto dell'angolazione spesso sorprendente da cui Baroncelli ce li mostra, sarebbe lunga: in linea di massima mi sembra che le pagine più riuscite riguardino i personaggi di media fama, preferibilmente scrittori: da Elizabeth Bishop a H. P. Lovecraft, "uomo non del tutto umano", da Max Brod ad Angelo Sassoli, "ghost-writer fiammeggiante" dell'Ortis apocrifo, che morì "dimenticato da tutti fuorché dai miei alunni della Quinta D", da Hart Crane (una delle vite più lunghe del libro, splendida) ad Alejandra Pizarnik, da Reinaldo Arenas, trovato morto "con gli occhi chiusi di un ginnasta infelice, e le gambe aperte di una ragazza che sta per partorire", a Rutilio Namaziano, che "sparì nel nulla, come una nuvola dal cielo. Era nato nell'ultimo crepuscolo dell'Impero e in quello si perdette".
Baroncelli dichiara di raccontare le vite dei personaggi prescelti (famosi, poco noti o affatto sconosciuti e, talvolta, inventati di sana pianta ma assai credibilmente) con lo scopo di trovarvi una zona d'ombra o una luce segreta: a me sembra che abbia cercato, soprattutto, il momento – la frase, l'azione, il gesto, la rinuncia, lo sbaglio – in cui una vita si rapprende in significato (ovvero in insignificanza), l'abbia magnificamente rappresentato e consegnato al lettore, a futura memoria. Di una verità o, borgesianamente, di una finzione.
Giuseppe Traina

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Conosci l'autore

Eugenio Baroncelli

1944, Rimini

Nato a Rimini, vive a Ravenna. Ha insegnato italiano e latino nei licei e si è alungo occupato di critica e teoria del cinema. Tra le sue opere Outfolio. Storiette scivolate dal quaderno durante un trasloco (2005), Libro di candele. 267 vite in due o tre pose (2008), Mosche d’inverno. 271 morti in due o tre pose (2011, Premio Supermondello e Piero Chiara), Falene. 237 vite quasi perfette (2012) e Pagine bianche. 55 libri che non ho scritto (2013).

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