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Anno edizione: 2016
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A chi, amante delle buone letture, intenda sottrarsi all’odierna e imperante monomania romanzesca che come un’onda limacciosa avvolge e travolge quasi tutte le librerie italiane, io vorrei suggerire di farsi avvolgere invece da quell’onda dei ricordi che si agitano e risuonano in Mela zeta di Ginevra Bompiani, un agile e prezioso libretto interamente consacrato alla memoria dei suoi illustri amici e maestri: José Bergamin, Giorgio Manganelli, Gilles Deleuze, Giorgio Agamben e Valentino Bompiani, padre di Ginevra. Note figure maschili d’indubbio fascino e spessore intellettuale, che si affiancano ad alcune figure femminili dal fascino altrettanto importante – le “grandi madri” del Novecento letterario, ovvero Elsa Morante, Ingeborg Bachmann e Anna Maria Ortese a cui fa da contraltare quella schiera, anonima e dolente, di donne bosniache scampate al massacro di Srebrenica alle quali Ginevra volle immediatamente portare, di persona, il suo soccorso umanitario. E se alla fine tutti costoro noti e ignoti si stagliano sulla pagina come sculture viventi di un immaginario museo d’ombre, ciò accade in virtù di uno stile letterario privo di fronzoli e sbavature “sentimentali”, che è sempre stato ahimè il peggior vezzo di tante scritture al femminile.
Una prosa quindi asciutta e oggettiva, dall’andamento diaristico, e apertamente in lotta contro quell’oscena “vecchiaia che ti toglie le cose una per una”, ma, più in generale direi, contro quella ineluttabile onda dell’oblio che tutti ci assedia. E tutti uguaglia in un unico e polveroso nulla infinito (…). Se la memoria è dunque la stella polare di Mela zeta la luce che ci guida in questo brancolamento sonnambolico tra i fantasmi del passato l’altro punto di forza del libro è rappresentato invece dalla lingua. Una lingua intesa sia come arca semantica che accoglie le voci e le occasioni più disparate, sia come unico strumento umano in grado di contrastare l’immane azione disgregatrice dell’oblio. Una lingua insomma che fa di Ginevra Bompiani, a mio avviso, una delle più acute ed elusive presenze dell’attuale scena culturale italiana.
Recensione di Francesco Permunian
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