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Frutto di un convegno del 1999, questo libro disomogeneo e coinvolgente affronta l'intreccio fra la matrice universalista del concetto di diritti umani e le loro nuove specificazioni legate alle condizioni, esperienze e soggettività delle donne. Non è stato un processo di allargamento automatico e indolore. Nato sul modello dei desideri e delle paure maschili, quel concetto sanciva implicitamente i corrispondenti doveri femminili, in primo luogo il vincolo alla sfera privata e ai compiti di cura, di modo che il cittadino potesse liberamente applicarsi alla politica. Non solo: le donne erano così spesso minacciate da soggetti diversi da quelli che minacciavano gli uomini, che il riconoscimento generale del diritto alla tutela non bastava affatto a garantirle. Il discorso vale anche al presente.
A volto scoperto >è una messa a fuoco su questi aspetti teorici e normativi e sulle forme di resistenza femminile. Fra storia e cronaca, e con molto equilibrio, i saggi della prima parte (Stefania Bartoloni, Elisabetta Vezzosi, Cristiana Scoppa) danno conto del dibattito femminista sul rapporto universalismo/differenza sessuale, e analizzano le politiche dell'Onu, che a partire dagli anni settanta ha tentato di riarticolare il concetto introducendo innovazioni importanti - innanzitutto il diritto all'integrità del corpo.
Peccato che le raccomandazioni Onu si possano eludere facilmente, e che i controlli siano labili o impossibili persino nei confronti di pratiche come gli aborti selettivi e le uccisioni di neonate in Cina, o le mutilazioni genitali diffuse in certe regioni dell'Africa e a volte tollerate nei paesi di immigrazione, con un relativismo spacciato per rispetto delle differenze culturali. La situazione, scrive Vezzosi, sembra più grave nella sfera privata che nella sfera pubblica, che pure è stata (in parte è ancora) storicamente preclusa alle donne. Un paradosso solo apparente, se è vero che la radice prima della disparità sta nei modelli di famiglia, di relazioni fra i sessi e di identità corporea, e che proprio su questo piano rivendicano competenza le autorità religiose e i settori più tradizionali delle varie culture, e non solo in Asia e Africa. Senza cadere in equiparazioni improbabili, è giusto ricordare che nel secondo dopoguerra alcune costituzioni europee riconfermano quasi per intero la posizione di inferiorità delle donne nella famiglia stabilita dalle leggi in vigore; e che oggi il Vaticano è allineato con una parte dei paesi islamici nel rifiuto di riconoscere il diritto delle donne a decidere se essere o non essere madri.
Non per caso: sulla maternità politiche e religioni giocano una partita cruciale, e i contributi della seconda parte del libro lo documentano con cura ed efficacia. Negli ultimi due decenni la figura della madre è riemersa con il suo enorme carico simbolico, ora come strumento ora come bersaglio ora come risorsa. Nei Balcani in guerra, tutte le parti in causa hanno risuscitato il modello della madre patriottica e custode delle tradizioni, sospingendo le donne verso una nuova "domesticazione"; nel frattempo, soprattutto da parte delle milizie serbe, si usava lo stupro etnico per umiliare il nemico e "inquinarne" la discendenza (Nadezda Cetkovic, Melita Richter Malabotta); oggi in Kosovo l'interesse delle più giovani per i nuovi lavori legati alla ricostruzione convive con la difficoltà di sottrarsi alla continuità di ruolo con le madri, mentre la memoria del dolore stenta a svincolarsi dal campo di significati costruito dalla collettività o propagandato dal nazionalismo (Silvia Salvatici).
Ma c'è un'altra memoria che altre madri custodiscono, facendone la "ragione sociale" di una lotta per i diritti umani. La memoria dei desaparecidos tenuta viva dalle madri di Plaza de Mayo e dalle meno note madri cilene e guatemalteche (Maria Rosaria Stabili); la memoria del massacro di piazza Tiananmen, dove l'iniziativa è nata da una singola donna, Ding Zilin, docente di filosofia all'Università del Popolo di Pechino, iscritta al partito comunista, madre di un ragazzo ucciso a diciassette anni - di questa storia mirabile e troppo poco conosciuta da noi, parla il saggio di Maria Clara Donato. Insieme al marito e ad altre madri, Ding Zilin lavora da tredici anni per stendere un catalogo dei morti e un altro dei sopravvissuti rimasti mutilati e invalidi: un impegno sotterraneo contro la morte anonima, che le è costato il licenziamento, gli arresti domiciliari, vessazioni di ogni tipo, ma che ha portato alla ricostruzione di 155 storie di morti e di alcune decine di storie di vivi. Quattro anni fa, quando aveva ricevuto il premio Langer, Ding Zilin era stata ignorata dai media italiani, oggi è ritenuta la figura più significativa del dissenso cinese.
Maternità come sola risorsa capace di resistere alla barbarie, come solo stimolo e legittimazione dell'azione politica delle donne? Di fronte alla "legge per la concordia civile" che minaccia di lasciare impuniti molti crimini fondamentalisti, oggi anche le donne algerine si richiamano alle madri di Plaza de Mayo. Ma l'Algeria degli anni novanta presentata da Giuliana Sgrena racconta una storia diversa, e non solo per la diversa natura della minaccia. A dispetto dell'offensiva terroristica, molte algerine hanno continuato a non mettere il velo, a portare a scuola le bambine, a frequentare cinema e discoteche - come donne e cittadine, prima che come madri reali o potenziali. Le militanti e dirigenti dei gruppi democratici, dopo aver visto erosi i diritti conquistati con la liberazione del paese, si sono schierate contro l'islamizzazione - ed è ovvio - ma anche contro i compagni inclini a rimandare il problema dello statuto delle donne al "dopo" - il che è meno ovvio, se si ricordano le discussioni su questo punto all'interno delle resistenze antinaziste. Che in una situazione estrema come quella algerina si manifesti il rifiuto di autolimitarsi nella quotidianità, di accettare la teoria dei due tempi, di adeguarsi alla versione sacrificale e oblativa del materno, mi sembra un fatto straordinario.
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