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Il primo pensiero che mi ha attraversato la mente nell'affrontare questa lettura è stato: "Ec-co, dopo Carmine Abate, incontro un altro autore che scrive come una volta, semplicemen-te raccontando". Quando il protagonista Ulisse Lilloni, un “ragazzone di vent'anni, alto più di due metri, forte e duro come la pietra grigia delle montagne”, sta pedalando sulla strada ghiaiosa dell'argine, in “canottiera bianca sui pantaloni blu”, diretto verso casa (“la casa dei pioppi”), “stretto sulla sua bicicletta”, mi sono ricordato le pagine de Il mu-lino del Po del grande Riccardo Bacchelli, così colpevolmente dimenticato. Lo stesso sapo-re della parola, lo stesso culto per la frase, lo stesso profumo della terra. Si respira la vita come si svolgeva anni addietro e l'autore ci fa rivivere immediatamente quegli anni descrivendoci la nascita prodigiosa di questo bambino che “sembrava non fos-se mai stato bambino”, che pesava sei chili e mezzo già a quel primo vagito e per venire al mondo aveva fatto soffrire alla madre Gina le pene dell'inferno. Al punto che alle sue grida di dolore nei momenti più forti del parto, la gente che le udiva dai campi e dalle case intorno si radunò nel cortile e attese con trepidazione l'evento. Quella sera che l'abbiamo visto pedalare sull'argine, giunto alla “casa degli Alfieri” vede affacciata alla finestra una ragazza mai vista prima, che lo saluta. Nei giorni seguenti fa di tutto per rivederla affacciata a quella finestra, ma le imposte restano chiuse. La sorellina Maria, “che non era sorda, non parlava e basta”, di sei anni, è la sola che si accorge che da qualche giorno Ulisse è mutato. Il cielo. I cieli. Non mancano mai nelle molte descrizioni che s'incontrano: un cielo azzurro, un cielo grigio, un cielo che si specchia nelle fosse, un cielo duro, un cielo limpido di stelle, un cielo impolverato di stelle, un cielo solido scudo, un cielo terso, un cielo a scaglie, un cielo d'estate, un cielo grande, un cielo immenso, un cielo vuoto, un cielo silenzioso, un cielo dove vagano i folletti,
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