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Un libro piccolo ma essenziale per chiunque abiti il dubbio che l'uomo non sia il massimo prodotto dell'evoluzione sul pianeta. Un testo quindi sulla relatività di ciò che i nostri sensi ci dicono, e quindi i nostri pensieri. L'assunto è quantomeno affascinante: tra i dispositivi che gli animali fabbricano per sopravvivere e gli “strumenti tipici” realizzati mediante il risultato di comportamenti umani, quali il linguaggio o un manufatto di terracotta, esistono analogie dirette e profonde.Tutti gli organismi viventi riescono ad organizzare i dati sensoriali generati da "perturbazioni" provenienti dal mondo esterno, grazie ad una “specie di conoscenza innata” che riconosce e assegna significato a tali eventi. Questa operazione è determinata in massima parte dalla struttura biologica e fisiologica dei diversi sistemi sensoriali attraverso cui si propagano i segnali stessi. Quindi “la maggior parte della conoscenza, in tutti gli organismi, è incorporata nella loro struttura biochimica e rappresenta un adattamento ad un ambiente in parte ignoto”. E in quest'ottica l'essere umano è assolutamente alla pari rispetto a qualsiasi altro esser vivente.
Recensioni
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recensioni di Lovisolo, D. L'Indice del 2000, n. 10
Libretto esile ma densissimo, con cui l'autore si pone obiettivi molto ambiziosi, costruendo un percorso stimolante attraverso la storia della fisica e della neurobiologia, e riuscendo a convincere il lettore della necessità di rivedere radicalmente concetti e concezioni che diamo per intoccabili e che invece tali non sono.
L'oggetto della riflessione critica è, nello specifico, la concezione del mondo esterno che da Galileo a Cartesio, Locke e Newton si è imposta, almeno fino al Novecento, nella scienza moderna, e che in molti casi viene tuttora accettata senza riserve: quella di un mondo fatto da corpi disposti nello spazio e nel tempo (considerando corpi, spazio e tempo tre entità distinte), che noi possiamo conoscere perché le nostre sensazioni sono analizzate da una mente immateriale e possono essere trasmesse ad altri grazie al linguaggio, che cattura le idee e le trasferisce ad altre menti.
La critica a questa impalcatura nasce da una constatazione: le sensazioni che noi, come molti altri animali (e forse anche esseri viventi non dotati di sistema nervoso), abbiamo del mondo esterno - e i comportamenti che ne derivano - si basano in buona parte su processi che sfuggono alla consapevolezza; l'esito del percorso critico è una revisione dei processi conoscitivi in senso sostanzialmente riduzionista, anti-dualista e materialista.
Il tutto accompagnato dal tentativo esplicito di utilizzare un linguaggio semplice, che renda la strada percorribile anche da chi non ha conoscenze specialistiche. Si tratta in realtà di un linguaggio sofisticatamente semplice, che utilizza un ponderoso bagaglio di conoscenze per cercare di estrarne elementi nitidi e ben definiti: da questo punto di vista si può dire che il tentativo sia riuscito, almeno in parte, e questo è uno dei pregi del libro. Le difficoltà che il lettore incontra - e le perplessità che possono restargli a fine lettura - si devono piuttosto al fatto che alcuni passaggi, particolarmente critici, sono affrontati in maniera un po' troppo concisa, mentre forse richiederebbero argomentazioni più estese. Da questo punto di vista, il libro appare come un appetitoso assaggio di un lavoro che potrebbe essere opportunamente esteso.
Entriamo nel merito: Galileo si era posto il problema della natura delle proprietà degli oggetti: quanto dipende e quanto è indipendente dalla nostra descrizione? La soluzione galileiana era che ci vuole l'osservazione, ma che questa non basta: possiamo essere facilmente ingannati. Ci vuole la "sensata esperienza", la capacità cioè di distinguere fra proprietà oggettive (le "qualità primarie") e quelle soggettive ("qualità secondarie"), che dipendono dall'osservatore. Colori, odori ecc. apparterrebbero a quest'ultima categoria, mentre forma (geometrica) e movimento sarebbero esempi della prima. Sovente, per poter "capire", cioè distinguere fra le une e le altre, non basta osservare, ma ci vogliono gli strumenti di misura. Solo così la mente può uscire dal labirinto delle sensazioni.
Qui, nota Bellone, cominciano i problemi: la moderna psicofisiologia, con lo studio delle illusioni ottiche, ha messo in crisi la fiducia nell'oggettività delle forme. Dietro ci sta però una questione più grossa: la scissione fra sentire e capire, fra sensi e mente. E allora da Galileo dobbiamo passare a Cartesio, che ha fornito le basi della concezione razionalistica dei processi conoscitivi. La teoria cartesiana della visione, descritta in pagine molto belle, è un processo in serie, dove la macchina cervello è unita all'anima che analizza, "capisce" ed è in grado di spiegare (con il linguaggio).
Locke e Newton contribuiscono a questo quadro: il mondo è una collezione di punti massivi, di cui la mente può ricostruire le storie nel tempo e nello spazio. Ma allora c'è il problema di definire tempo e spazio, e qui saltano fuori altri problemi: lo spazio sarebbe immodificabile dalla presenza o assenza di corpi, e il tempo si originerebbe nella mente. Ma la mente è un foglio bianco, e tutto si origina dall'esperienza...
Su queste ambiguità si infila il rasoio del villano di turno, in questo caso lo scettico Berkeley: il mondo ci sarà pure, ma come si fa a distinguere fra materia e spazio assoluto? Se togliamo tutti i corpi, cosa resta? Il nulla, secondo il nostro vescovo. Le questioni aperte sarebbero quindi sostanzialmente due: la separazione fra materia e spazio e la conoscenza come processo cartesianamente dualistico. Oggi possiamo affrontarle da un punto di vista nuovo, basato sulle conoscenze accumulate negli ultimi decenni riguardo alla neurofisiologia della percezione. In un capitolo agile e sintetico, che può essere goduto a sé come esempio di ottima divulgazione, viene dimostrata l'inconsistenza del modello in serie. Il sistema visivo, ad esempio, dalla retina ai livelli corticali superiori, lavora piuttosto in parallelo: zone specifiche sono specializzate per la soluzione di problemi particolari, e i processi di categorizzazione emergono dalla rete di interconnessioni che fra essi si stabiliscono. Addio quindi alla "stazione terminale": semplicemente non c'è, e addio al dualismo fra troncone materiale (il sentire) e troncone immateriale (l'attribuire significati). Ma c'è un altro addio da dare, altrettanto struggente, ed è quello alla distinzione fra qualità primarie e secondarie: il sistema visivo tratta e manipola in maniera analoga le informazioni sulla forma geometrica e sul colore. Devo dire che questo è uno degli argomenti che più mi ha colpito. Insegno da tanti anni fisiologia della percezione senza aver mai prestato attenzione a questa cruciale conseguenza.
Poi tocca al tempo. Lo possiamo misurare, ma questo non significa sapere davvero cos'è. Non ci sono organi di senso con cui lo possiamo "percepire"; si può dire piuttosto che il tempo è insito nei meccanismi con cui funziona il cervello, ma questa affermazione comporta un altro addio, al tempo assoluto che scorre con velocità costante. Qui la crisi viene non solo dalla neurofisiologia, ma prima ancora dalla rivoluzione scientifica introdotta cent'anni fa dalla teoria della relatività. Bellone sposa la critica einsteiniana alla scissione spazio/tempo, con la conseguente crisi del concetto di simultaneità, e la porta alle conseguenze ultime: la negazione dello spazio vuoto separato dalle "cose" spazio-temporali quadridimensionali (vendicando così il tanto bistrattato Berkeley). L'origine delle "cose" è psicologica, quasi una stabilizzazione di sensazioni che si presentano con continuità e frequenza.
Un capitolo finale è dedicato al rapporto fra mente e manufatti utilizzati per esplorare il mondo. Senza i manufatti, gli strumenti, il pensiero non avrebbe mai potuto concepire i dettagli della microanatomia dei capillari sanguigni - o della struttura delle galassie. L'aspetto su cui l'autore insiste è però un altro, meno scontato: l'evoluzione dei manufatti - e dei risultati a cui essi portano - è sovente imprevedibile, indipendente da teorie e aspettative: contrariamente a quanto molti dicono, il problema non è tanto che gli approcci sperimentali sono intrisi di teorie, ma che le teorie sono anch'esse manufatti, e di questi condividono la frequente non intenzionalità. I prodotti dell'uomo sono "organismi di secondo ordine", soggetti anch'essi a un'"evoluzione senza progetto": le cose, lo spazio, il tempo, trovano la loro base nella biochimica degli organismi, nell'evoluzione biologica.
Un approdo convincente? A parere del recensore, almeno in parte sì. L'argomento occupa i filosofi non da oggi, e non troviamo certo qui risposte definitive. Siamo però invogliati a guardare con più curiosità ai "manufatti" materiali e immateriali che utilizziamo tutti i giorni.
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