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Anno edizione: 2022
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(recensione pubblicata per l'edizione del 1986)
recensione di Materassi, M., L'Indice 1986, n. 9
Rieccoci dunque, nel rispetto di una irrispettosa periodicità, al rito antropofago del disseppellimento del Padre, la consumazione dei suoi resti miracolosamente rinnovatisi, la nuova tumulazione nel segno di una nauseata sazietà. Successe nel '64 con "Festa mobile", poi nel '70 con "Isole nella corrente", poi di nuovo nel '79 con "88 poesie"; ci risiamo oggi, con questo "Un'estate pericolosa". Ogni volta accorriamo al rito, perché così ci impone il riavvampare di una febbre contratta in gioventù - il morbo di Hemingway, come la chiama uno scrittore un po' più giovane del Maestro. Accorriamo, partecipiamo: anche se sappiamo bene che ormai quel nome è gestito con fredda lucidità dalla vedova, dagli agenti, dagli editori, i quali assai poco scrupolo si fanno di sostanziare, pubblicando fondi di cassetto, le bordate velenose di quanti il Maestro proprio non possono digerire.
Quale altro intento, infatti, se non quello di far quattrini, ha la riesumazione di questo lungo, ripetitivo racconto (uscito in parte su "Life" nel 1960) di un'estate passata dallo scrittore al seguito di un torero, Antonio Ordonez, nella sua sfida al cognato più noto, Luis Miguel Dominguin? Non certo un intento scientifico: ché, come operazione filologica, "Un'estate pericolosa" merita la definizione con cui Totò, lapidariamente, sistemò la prova cinematografica degli altri "soliti ignoti": il manoscritto - che Hemingway stesso riteneva troppo lungo - è stato ridotto senza che i tagli venissero indicati n‚ nella ubicazione n‚ nell'estensione, e senza che venissero illustrati i criteri preposti a tale operazione. Tutto quel che ci viene detto è che il dattiloscritto originale è stato ridotto a poco più della metà.
Uno potrebbe (non dico che io potrei) chiudere un occhio su un'operazione editoriale così disinvolta, se il risultato fosse un libro interessante. Ma questo, francamente, non mi pare il caso: n‚ dal punto di vista del linguaggio, n‚ da quello del suo oggetto, e cioè la tauromachia.
La scrittura è quella dello Hemingway mestierante, riconoscibile come Hemingway perché inconsapevolmente autoparodistica: un linguaggio non più innovativo (qual era quello del primo Hemingway) ma fossilizzatosi in formula, il cui unico referente è in realtà il sistema percezione/dizione instaurato quarant'anni prima, e il cui unico effetto è quello di una inerte reiterazione.
Per chi si diletti di tauromachia, peraltro, il libro dovrebbe riservare qualche interesse, visto che non vi si parla d'altro; n‚ la ripetitività costituisce mai, per un'utenza specializzata, fattore negativo. Ho i miti dubbi, tuttavia, che per un vero esperto di tauromachia "Un'estate pericolosa" abbia più valore di quanto per un esperto di ciclismo, ne abbia "Battista al Giro d'Italia" di Achille Campanile. E questi dubbi mi nascono dal fatto che Hemingway si piglia un po' troppo sul serio come intenditore di corride - troppo sul serio per poter avere quella qualità di cui il vero esperto non manca mai: la capacità dell'autocritica, del dubbio sulla correttezza delle proprie opinioni. Per chi invece, come me, sia del tutto impervio all'asserito fascino di banderillas, veroniche, corali "Olé!", sangue (purtroppo, quasi sempre soltanto bovino) e arena, sia immune alla retorica del "momento della verità", questo libro riesce unicamente a confermare il carattere invero sgradevole dell'uomo Hemingway: malato di protagonismo, amante dei cortigiani, incapace di autoironia e, quindi, di rispetto. Uno scrittore che non osa più, un osservatore che, aggrappato da decenni alle proprie indiscusse certezze, non è più capace di cogliere il senso profondo - perché conflittuale - della realtà osservata. Tutto si riduce qui alla scontata competenza di Hemingway in fatto di tori, di corna falsate, di "matadores" che usano trucchi e di altri che li disdegnano: nessuno, nelle grandi arene dell'intera Spagna, è in grado di vedere quello che vede lui, nessuno è addentro alle segrete cose come Ernesto - questa figura che le folle riconoscono e applaudono, che le Guardie Civili si fanno in quattro per obbedire, che toreri, "aficionados" e bettolieri accolgono con cameratesca deferenza nel sacrario dell'amicizia fra uomini "veri". Che tristezza. Soprattutto, che noia.
Ma allora perché leggerlo, questo triste libro noioso? Anch'io, che pure amo profondamente i racconti e, con qualche riserva, i primi romanzi - perché arrivare fino in fondo a tante pagine che nulla aggiungono alla nostra comprensione, al nostro apprezzamento del grande Hemingway, ma anzi portano acqua al mulino di quanti quella grandezza tentano di negare sottolineando il tanto che, nell'uomo come nella sua opera, grande certamente non è?
Forse, la non convinta speranza di trovare, qua e là, qualche pagina degna di uno dei maggiori rinnovatori del linguaggio narrativo del Novecento - poco convinta, questa speranza, perché già dalla fine degli anni Trenta Hemingway aveva cessato di inventare un linguaggio.
O forse, soltanto il desiderio di poter dire, a ragion veduta: Volgete il capo, non guardate. Poter dire, serenamente, Basta con le esumazioni. Chi ha scritto "La breve vita felice di Francis Macomber" ha il diritto al rispetto del silenzio.
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