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Logiche meticce - Jean-Loup Amselle - copertina
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Logiche meticce - Jean-Loup Amselle - copertina
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Descrizione


I peul sono davvero un'etnia riconoscibile grazie a tratti comuni inconfondibili? I bambara del Mali, sono davvero bambara? E le società segmentarie dell'Africa occidentale sono davvero strutture contrapposte e alternative agli Stati? E ancora, il paganesimo africano è antagonista rispetto all'Islam? Questi i dubbi insinuati dall'autore sulla base delle sue riflessioni dopo anni trascorsi a fare ricerca sul terreno. Muovendo dalle proprie esperienze personali, Amselle critica la "ragione antropologica", non complice ma figlia di un'ideologia coloniale che tendeva a separare i soggetti dal loro contesto e a classificare, distribuendo così, grazie al rapporto di forza favorevole, attributi e definizioni destinati inevitabilmente a diventare categorie politiche. In questo libro Amselle mette in luce come l'invenzione delle etnie sia spesso il risultato dell'opera congiunta di amministratori coloniali e di etnologi di professione, nonché di quanti riuniscono le due qualifiche. Emerge da questa prospettiva la tesi che il panorama etnico africano non è il prodotto di nuclei originari distinti, ma quello dell'azione classificatoria esercitata su un "continuum" socioculturale, privo di divisioni nette.
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Dettagli

1999
15 ottobre 1999
189 p.
9788833911953

Voce della critica


recensioni di De Micco, V. L'Indice del 2000, n. 04

Ritornare periodicamente a interrogarsi sulle opportunità e gli interrogativi suscitati dalla riflessione etnopsichiatrica risulta particolarmente interessante soprattutto quando, come nel nostro caso, si ha la possibilità di "mettere in risonanza" un testo schiettamente (etno)psichiatrico con un testo espressamente antropologico. Leggere uno attraverso l'altro i due testi in questione, avendo ben presente i limiti di una tale operazione (diversità di contesti, di preoccupazioni teoriche e metodologiche), può servire a mettere in luce alcuni fondamentali spazi di confronto epistemologico e 'operativo' tra psichiatria ed etnoantropologia sebbene la complessità e l'interesse dell'opera di Amselle non possa certo essere costretta nell'ottica di una lettura propedeutica a questioni di ordine etnopsichiatrico.
Amselle parte da una critica serrata nei confronti della "ragione etnologica", tesa a classificare e catalogare unità discrete: le etnie, appunto, e le culture. Tale bisogno di separare e dunque di esaltare le differenze piuttosto che gli aspetti di continuità tra le popolazioni e le culture ha risposto alle necessità della gestione coloniale, con cui la ragione etnologica è stata "oggettivamente" connivente. Il bersaglio critico dell'autore francese è rappresentato dal tipo di sapere che l'etnologia ha costruito, in particolare dallo specifico tipo di omissioni e di occultamenti che la ragione etnologica ha reso possibili. L'ottica discontinuista secondo Amselle era funzionale sia a una ragione scientifica che intendeva trattare le società come una sorta di entità naturali e quindi a costruirne una classificazione, una specie di tassonomia, sia alla pratica del regime coloniale, che aveva bisogno di dividere in distretti amministrativamente omogenei e separati i territori da controllare. Tale attitudine conoscitiva ha prodotto delle vere e proprie finzioni etnografiche, inventando in un certo senso etnie e identità etniche irriducibili, laddove la storia africana dell'area presa in esame (in particolare quella francofona occidentale: Mali, Sudan occidentale, ecc.) in epoca precoloniale restituiva una realtà molto più variegata e interrelata, in cui i destini delle singole popolazioni appaiono storicamente legati e non indipendenti, e dove anche i nomi che sono andati poi a identificare le varie etnie si riferivano originariamente a diversità sociali e politiche piuttosto che a varietà etniche. Amselle non manca di sottolineare come tale operazione reificante, sostanzialmente distorsiva della realtà africana precoloniale, abbia poi agito retroattivamente, per così dire, sulla stessa autopercezione delle comunità locali, che hanno cominciato a rivendicare, nell'ambito di nuove lotte di potere e di nuove situazioni politiche, la loro specificità etnica.
Lo scopo principale è quello di dimostrare come la reificazione delle etnie tenda a occultare le dinamiche politiche in gioco, come le controversie sui saperi distolgano dalle reali lotte di potere che le sottendono.
Il fondamentale errore metodologico che conduce a esaltare le differenze piuttosto che a mettere in luce i sostanziali elementi di continuità storico-politica tra le popolazioni si riflette poi in due posizioni politiche apparentemente antitetiche, ma che si fondano secondo Amselle sulla medesima ottica distorta e alla fin fine falsa. Sia che si invochi la difesa di una purezza etnica territoriale (tradizionale argomento delle destre europee più o meno xenofobe), sia che ci si batta per la realizzazione di una società multietnica e multiculturale, si parte sempre dal medesimo errore: dal ritenere cioè che le etnie separate e differenziate ontologicamente esistano davvero, che le identità etniche siano irriducibili, che il meticciato sia un punto d'arrivo e non invece una condizione di partenza, una condizione originaria. Si può parlare allora di "finzione" etnica, o meglio ancora di "fiction" etnica, diventando l'etnia ciò che è restituito o ciò che nasce nel resoconto etnologico, nella scrittura antropologica, una sorta di realtà virtuale che ha però rappresentato, e rappresenta tuttora, la realtà storica e politica dell'"incontro" tra nazioni colonizzatrici e società colonizzate.
Il rischio principale di una tale impostazione risiede soprattutto nell'irrigidire il concetto e il ruolo dell'identità. Secondo Amselle, l'identità etnica, politica, culturale è sempre stata nella realtà africana un costrutto flessibile, e non sono stati rari i casi di vere e proprie "conversioni identitarie", a carico tanto di singoli quanto di collettività. Semmai l'uso di criteri identitari rigidi è da attribuire all'introduzione da parte dei regimi coloniali di metodi accentrati e burocratizzati di registrazione dell'identità, in cui l'istanza statuale, pretende di decidere e di controllare l'identità (appartenenza, trasformazioni, possibilità, ecc.) dei suoi membri. Non solo, tale attitudine ha soprattutto cercato di impedire il libero gioco di negoziazione dell'identità, occultandone il fondamento politico, il suo essere la sanzione di un rapporto di forza, piuttosto che un'essenza. L'identità dunque per Amselle è uno stato instabile, un sistema di trasformazioni, non una sostanza o una causa in grado di spiegare fenomeni di interazione culturale. Si assiste a veri e propri fenomeni di mitizzazione e di feticizzazione dell'identità che impediscono di vedere fino a quale punto siamo già profondamente abitati dall'altro, quanto la logica di produzione dell'altro è una logica di riproduzione del medesimo. Denunciare l'errore di prospettiva del multiculturalismo non significa affatto per Amselle togliere spazi alle nuove soggettività "etniche" ma significa al contrario restituire loro un reale spazio di negoziazione sociale e politica in cui il libero gioco delle identità possa ritrovare il suo fluire.
Queste posizioni di Amselle sono difficilmente conciliabili con quelle di chi sostiene che le diverse identità etniche non possono prescindere da un nucleo simbolico fondamentale, che dà loro senso e valore.Ma, come sottolinea Marco Aime nella sua introduzione, seppure esiste tale nucleo identitario profondo è altrettanto vero che esso non diventa operativo sul piano storico che in presenza di particolari contingenze sociali e politiche, di particolari conflittualità tra gruppi: basti pensare agli ebrei durante le persecuzioni naziste o ai risvegli etnici nei paesi ex-comunisti. E dunque gli elementi di appartenenza etnica, le matrici identitarie possono essere attivati in direzioni mutevoli a seconda delle lotte politiche, delle contingenze storiche: in fondo, una nuova riprova della estrema flessibilità dell'identità.

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Conosci l'autore

Jean Loup Amselle

Jean-Loup Amselle, antropologo, è di­rettore di studi all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, caporedattore dei «Cahiers d’études africaines» e autore di numerose pubblicazioni, tra cui, per le nostre edizioni, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove (1999) e Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture (2001).

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