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Un romanzo che vuole essere un reportage sulla vita degradante di profughi e Rom accampati nella ormai decadente Pavia operaia, un'opera di denuncia poco incisiva e inconcludente. Uno stile diretto, senza fronzoli. La lettura è scorrevole ma non entusiasmante. L'autrice sembra voler mantenere un distacco emotivo tra la sua vita e quella dei "disperati" ma quello che traspare è solo un'iniziale e apparente interesse e volontà di portare aiuto che poi si perde senza lasciare un segno tangibile. Nota di merito per aver affrontato questo tema spinoso.
Anna Ruchat in questo libriccino di intensa partecipazione "civile", scritto tuttavia con uno stile secco e lontano da qualsiasi sbavatura emotiva, narra le vicende di un gruppo di persone rom e rumene ammassate nella fabbrica dismessa della Snia Viscosa a Pavia. Accostatasi a questa realtà di degrado e umiliazione all'inizio del 2007, insieme a qualche volontario della Caritas per portare cibo e vestiti a donne e uomini dimenticati da Dio e dal mondo, si ritrova da subito coinvolta nelle loro esistenze, partecipe con indignazione alle loro sofferenze, e testimone impotente dell'indifferenza "della classe politica affarista e provinciale che governa la città". Frequenta le famiglie disperate e abbrutite dei rom, parla soprattutto con le donne, umiliate da aborti, gravidanze precoci, violenze e prostituzione; con i bambini e i giovani, costretti a rubare o a elemosinare, a difendersi dalle persecuzioni razziste esterne e dalle rivalità familiari nel campo, e a lottare per cercare vanamente un'integrazione scolastica o lavorativa sempre rifiutata. Testimonia sgomenta la condizione di assoluto degrado in cui queste persone trascorrono le loro giornate, tormentate da freddo, assalite da torme di topi voraci, continuamente in balia di sporcizia, alcol, infezioni e malattie. Alla fine la sconfitta arriva per tutti, quando la Snia viene sgomberata e abbattuta, e il popolo dei rom disperso: "Li portano in giro di notte, sugli autobus, come scorie radioattive...". Ad Anna Ruchat resta il rimpianto di non essere riuscita a opporsi alla cecità egoista dello stesso suo mondo borghese e intellettuale: "La verità è però che non reggo più a tutto quel mare di sofferenza, la mia impotenza mi mortifica...". Riesce tuttavia a fare qualcosa di fondamentale, traducendo e facendo pubblicare le poesie della "regina degli zingari" Mariella Mehr, organizzando per lei una serata di successo nel teatro di Pavia, e riproducendone alcuni versi sofferti anche in questo libro.
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