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Un libricino piccolo piccolo ma tutt'altro che leggero. Partendo dagli animali del padre e da questa stanza che li continente, vero fulcro della narrazione, il protagonista ci guida in un viaggio del tutto peculiare dove morte, riflessione ed affetto sì combinano sotto una luce cupa. Singolare la struttura, con alternanza di prosa e versi, che la rende a tratti frammentata, contribuendo al senso di inquietudine che domina l'atmosfera della storia. Una bella sorpresa!
Il mio primo "incontro" con un autore, e un maestro, che ammiro moltissimo.
La casa editrice Duepunti di Palermo pubblica questo libriccino, scarno e terribile, di Giulio Mozzi nelle sua collana "Zoo, scritture animali". Ma gli animali di cui parla lo scrittore padovano sembrano in realtà un pretesto (mortifero,ossessionante,da incubo) perché in realtà perno vero del racconto è la stanza che li raccoglie e li conserva, li protegge e nasconde. Gli animali sono infatti piccoli pesci,granchi,meduse,spugne,vermi,conchiglie: quasi sfatti o putrefatti in vasi di vetro incrostati e colmi di formalina puzzolente, il cui odore asfissiante ammorba il giardino e la casa che ospita questa stanza. Un ripostiglio buio, senza finestre, arredato con scaffali di metallo sopra cui il padre del protagonista -scienziato e sommozzatore- allineava i suoi barattoli con le prede conquistate durante i suoi avventurosi viaggi in giro per il mondo. "Questi sono gli animali. Questi sono i miei ricordi": memorie che si alterano in allucinazioni, si trasformano in tormentose angosce. Perchè "nella stanza degli animali, il 17 giugno del 1994, venerdì" avvenne la tragica violenza familiare, inspiegabile e volutamente non motivata, che arrivò a spezzare in due la vita del protagonista. La casa fu venduta a parenti, la stanza degli animali svuotata, ripulita e imbiancata. Non così si può fare con i ricordi, con l'anima: "io sono vivo data l'impossibilità di morire, tutto ciò che vive dentro la mia mente è morto, tutto ciò che è dentro la mia mente non può morire". Il figlio va a trovare il padre in carcere, gli porta ogni volta qualcosa, elencando con puntigliosa tristezza i suoi fragili e non consolanti doni; il padre tace, o ripete una litania senza senso, come una giaculatoria: "C'era e non c'è la rosa". Realtà e sogno, esistenza e morte, pazzia e speranza di salvezza (e di perdono) si confondono, nei versi malinconici e delicati che chiudono con un rondò questa alta prova di scrittura, asciutta e straziante.
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