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Noi non sappiamo chi fosse Bhartrhari e solo con azzardo possiamo dire quando visse (fra il I e il V secolo d.C.). Ma queste strofe Sulla saggezza mondana, sull’amore e sulla rinuncia ci sono rimaste come la fragranza stessa della civiltà indiana. Fanciulle dal seno opulento e dagli occhi di cerbiatta, sovrani rapaci, mercanti e mendicanti si alternano fuggevolmente sulla scena di questi versi. Ma una sola voce ci parla: pacata, sinuosa negli ornamenti verbali, dolcemente autorevole. E ci dice le cose più contrastanti: le donne e le loro seduzioni sono la porta dell’inferno; però è falsa saggezza quella di chi le dispregia, perché anche in paradiso ritroverà le ninfe. Il mondo è impermanente e vuoto; ma come stornare dalla mente il desiderio che vuole quelle effimere cose del mondo? E così avanti. Tutto ciò che per noi appare innanzitutto come contraddizione, per la poesia indiana era innanzitutto sequenza di «sapori» (rasa). E di sapori si compone la poesia. Bhartrhari ne dispiega un ventaglio variegato: dalle asciutte sentenze di chi conosce il corso delle cose mondane sino alle immagini sontuose di chi è inebriato dall’eros; infine, sino alle affilate sentenze di chi si è liberato dai vincoli. E, dietro a tutti questi enunciati discordanti, ritroviamo la suprema discordanza, che l’India ha affermato sin dalle origini: quella fra un assoluto inscalfibile (brahman) e l’impermanenza del mondo, dove «non vi è nulla che non sia divorato da qualcosa».
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