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In un romanzo – edito originariamente da Flaccovio, finalista al Campiello, ripubblicato con un titolo leggermente diverso da Santi Quaranta – di un grande e ignorato scrittore siciliano, Giangiacomo e Giambattista del favarese Antonio Russello, si legge: «È destino delle grandi opere di perdersi sì, ma il Cielo le salva e le fa arrivare in porto». La frase può riferirsi ai libri di Nino Savarese, al pari di Russello (lanciato da Vittorini, col plauso iniziale di Sciascia) dimenticato dalle major editoriali e da lettori che… consumano altro.
Il maestro del maestro di Regalpetra è uscito dal gruppo: non è fuori luogo sostenerlo. È ingeneroso considerare Savarese – fra i primi ispiratori di un giovanissimo Leonardo Sciascia – un minore del Novecento siciliano, quindi italiano; oggi più che mai può riemergere dalle brume. Per leggerlo, studiarlo, consigliarlo, non ci sono più scuse. Qualche anno fa bisognava cercarlo nelle migliori biblioteche o essere fortunati fra bancarelle e siti di remainders, per ripescare suoi libri editi da Sellerio o Salvatore Sciascia. Il rilancio dello scrittore nato a Castrogiovanni (nome di Enna fino al 1927) è opera della casa editrice palermitana Il Palindromo, che nel 2017 ha rispolverato il suo I fatti di Petra, nel 2018 s’è ripetuta con Rossomanno e adesso riporta in libreria il terzo atto della trilogia, Il capo popolo (244 pagine, 13 euro): tre romanzi originariamente pubblicati fra il 1935 e il 1940. Scelte controcorrente ai tempi dell’editoria fast food, ma pienamente consapevoli. Scelte imitate, se si pensa che Pungitopo, storica casa editrice di Gioiosa Marea, ha da poco pubblicato un volume di Nino Savarese, Allegorie e pensieri (104 pagine, 5 euro), che raccoglie scritti brevi.
Morto a Roma 74 anni fa, in vita scrittore di fama nazionale, collaboratore – tra fedeltà e tradimento dei dettami di grazia stilistica – della rivista La Ronda, Savarese è stato rimosso dalla memoria della critica nazionale, a eccezione di rari studi e interventi. Una damnatio memoriae forse figlia dell’ideologia: i rondisti proponevano una letteratura politicamente e filosoficamente disimpegnata; la loro rivista, la cui vita coincise con l’ascesa del fascismo, non prese posizione sul partito di Mussolini e, in certi casi, non rifiutò del tutto la dottrina fascista. Concetti che, estremizzati, stereotipati, portarono alla condanna dei protagonisti di quella stagione, compreso Savarese, da parte dell’establishment che dagli anni Cinquanta ha orientato gusti e canoni, non solo letterari.
La nuova edizione de Il capo popolo di Savarese è impreziosita da un’introduzione di Goffredo Fofi, tra i primi, nel 2017, a suggerire una riscoperta del grande autore siciliano. Pur attenendosi a grandi linee a dati storici, quello di Savarese non è solo un romanzo storico, ma di sicuro è irrorato da simbolismo (il protagonista non è in qualche modo un Cristo immolato?) e grande tensione metafisica; ha come protagonista Giuseppe D’Alessi, capo dei rivoltosi contro i viceré, a Palermo nel 1646, fra il quartiere della Conceria e la chiesa di San Giuseppe dei Teatini. Grandi precipitazioni e poi un’implacabile siccità introducono i tumulti, che si concluderanno con una restaurazione.
D’Alessi, credente, epigono del partenopeo Masaniello, al fianco del quale lottò, ha come una sorta di premonizione quando apprende la fine del pescivendolo napoletano. Il suo epilogo terreno non sarà dissimile da quello di Masaniello: sogna di condurre una rivoluzione di velluto, dialogando con tutti, anche col potere che imponeva gabelle sulla Sicilia. Un disegno nobile ma cieco e illusorio, un abbaglio, un’utopia che crolla miseramente e finisce con la vigliacca decapitazione del capo della rivolta. Savarese, con la sua impeccabilità formale, focalizza l’attenzione sulle varie anime di D’Alessi (dalla religiosità all’istintiva mancanza di strategia), “tradito” dal popolo e ingannato dall’aristocrazia, falsamente accondiscendente.
Recensione di Salvatore Lo Iacono
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