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Ancora prima che l’occhio agganci il testo e dia avvio alla lettura, quello che si nota è il blu. Perché sì, La custodia dei cieli profondi (186 pagine, 15 euro), secondo romanzo di Raffaele Riba, è, oltre che un libro con una storia e una poetica definite, un bellissimo, raffinato ed elegante oggetto libro creato dalle sapienti mani di Silvana Amato per 66thand2nd, con disegni di copertina tratti da Lectures on astronomical theories di John Harris, testo del 1876 e altre immagini che arrivano dall’archivio della British Library. Un oggetto che già dall’abito narra di una diversità, di un essere alieno all’abitudine del lettore, appartenente a un universo più grande, vasto e ancora da esplorare. Il testo non è nero, nella consuetudine tipografica, ma blu: blu come una sensazione, colore freddo, acqueo, colore di un altro sole che sorge poco prima che quello giallo, a cui noi terrestri siamo abituati, tramonti e permetta al buio di coprire la Terra. Ma il buio, in questo strano mondo in disfacimento cosmico raccontato da Riba, stenta ad arrivare: c’è la luce, la luce blu che modifica il corso della natura, dissolve cicli, equilibri.
Luce blu di polvere stellare che inonda le vicende di Cascina Odessa, e di Gabriele, che ne è Custode, poi Eremita, fino a diventare, sulla bocca di tutti, il Matto. Siamo in un piccolo paese della provincia di Cuneo, entroterra piemontese profondo. Cascina Odessa è una casa immersa nel bosco e strappata all’acqua del torrente grazie a progetti e visioni lontane del nonno di Gabriele ed Emanuele, fratelli che in quella casa, tramandata per tre generazioni e diventata come una pelle, passeranno l’infanzia insieme. «Io derivo da questo posto, e per ogni cosa fatta dopo sono partito da qui» dice infatti il protagonista, figlio di una stratificazione di sedimenti che, dall’atto fondativo del nonno, lo ha portato nell’oggi. Ma è un oggi di dissoluzione, lo è sempre stato, ed è la lancinante scoperta dell’impossibilità di arrestare questo movimento che avvia il motore di questo romanzo. Dopo anni passati a cercare di radunare e contenere la polvere – anni di cura, promesse al luogo – Gabriele viene infatti stravolto da un nodo che si scioglie: è lì che ha inizio la fine di tutto, il sorgere del sole blu e la fine del mondo come era sempre stato prima. È la rivelazione dell’inarrestabile forza che tutto sgretola, la forza cosmica, contro cui a nulla serve curare, anche se, Gabriele lo sa: «Le persone che curano – animali, piante o una scala – sono le uniche resistenze di cui il mondo dispone contro la dispersione».
«Capire cosa succede in cielo sarà più facile che ricostruire cosa è successo qui, su questa porzione di terra che, una volta, aveva una densità di persone e di legami che ne facevano una casa. Questa è una sapienza da raggiungere studiando il dolore, qualcosa che ha a che fare con la dispersione». Fuori dalla metafora cosmica, che permea tutto il libro e ne disegna il profilo stellare, etereo ma anche universale, quella raccontata da Riba è una distruzione palleggiata tra coppie ricorrenti e dicotomie: due fratelli, due soli, quello giallo e uno blu, anomalo, quasi due cariche opposte, come la superficialità che si oppone alla cura delle cose, la polvere che sgretola le promesse edificate, il baricentro di Casina Odessa e una supernova esplosa nell’universo, i boschi e l’infinità del cielo, la muffa che sgretola i muri di casa e la polvere di una stella estinta milioni di anni fa. Due sono i fratelli, due gli amori, due i genitori, la cui solidità si disperde come tutto ciò che circonda Gabriele, granello dopo granello, sabbia nella clessidra di un tempo che si sfalda dopo lo spostamento d’asse causato dal secondo sole. I giorni non si contano più, muoiono le creature del bosco, nell’incessante ricerca di un ritmo di luce e buio, perde la quadratura delle cose lo stesso protagonista, tacca dopo tacca segnata sul muro, naufrago tra le mura di casa propria, perso come un minuscolo satellite in un cosmo che impone la sua entropia sulle cose umane.
Cascina Odessa è destinata a disfarsi, come ogni elemento. Sulle costruzioni dell’uomo è imposta la legge di una natura cosmica che si riprende spazi, distrugge, spodesta argini. È inevitabile: dopo anni passati a cercare di arginarla, Gabriele cede al suo spietato ingranaggio. Sotto la luce blu i due piani si intrecciano: pur nella certezza che le vicende del cosmo non hanno nessun legame di causalità su quelle umane, il sole blu segnala un collegamento, inarrestabile messaggero della fine di tutto. Una fine che, secondo le leggi dell’astronomia, c’è già stata, sabbia e polvere che c’erano e torneranno a essere: la luce blu è il riverbero di uno sconvolgente fenomeno celeste avvenuto in un passato lontanissimo, «ma è sempre l’origine il problema – si interrogherà Gabriele – Andare a cercare il momento esatto in cui una forza si è divisa, ha perso sincronia, l’accordo sinusoidale che teneva legati me e mio fratello». La custodia dei cieli profondi di Raffaele Riba racconta con straordinaria forza poetica proprio questa ricerca, scavando nel dissolversi di tutto, persi i riferimenti umani e universali, e procedendo con quel tempo sfasato e paradossale spiegato dalla fisica, per cui la luce che vediamo è già stata, appartiene al passato, ed è nel prima che vanno, forse, cercate le ragioni. La fine, non a caso, è un ouverture: «così passa ancora un attimo prima che io sappia. Il mio adesso è un passato. Il campo della gravità, la lentezza della massa. Non l’hanno mai trovata. Ora la dispersione è un fatto».
Recensione di Alessandra Chiappori
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