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Di Olympe de Gouges (1748-1793) si ricorda soprattutto la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina del 14 settembre 1791: una vera e propria sfida, fin dal titolo, contro l'esclusione delle donne dalla vita politica e dall'esercizio dei loro diritti naturali, sacri e inalienabili, ma anche un'incalzante requisitoria contro l'oppressione maschile. Non sorprende che sia considerata come un vero e proprio manifesto, una "tappa fondamentale nella storia dell'emancipazione femminile". È quanto scrive nella sua introduzione la curatrice di questa edizione, che ha il merito di proporre non soltanto la Dichiarazione, già oggetto di alcune traduzioni, ma una più ampia antologia di testi tratti dall'edizione francese degli Écrits politiques, curata da Olivier Blanc. La scelta consente di collocare la Dichiarazione nel contesto della partecipazione della scrittrice alla vita politica francese fra il 1788 e il 1793, e di comprenderne meglio il significato non di parte.
Per Olympe non può darsi rivoluzione se non realizzando l'universale liberazione del genere umano ed eliminando qualunque forma di schiavitù. Nei giorni tumultuosi della convocazione degli Stati generali, rivendica di essersi occupata per prima "della sorte deplorevole dei Neri" (maggio 1789). Lo aveva fatto in un dramma del 1784, Zamore e Mirza o Il naufragio fortunato, che solo nel dicembre del 1789 poté essere rappresentato sotto il titolo La schiavitù dei neri. Alla dura reazione dei mercanti delle colonie replicò il 18 gennaio 1790 nella Risposta al campione americano o al colono facilmente riconoscibile: "L'odiosa tratta dei neri mi ha sempre offeso nell'animo". E nel Postambolo alla Dichiarazione del 4 settembre 1791 ribadiva la condanna di qualunque forma di commercio di esseri umani, che si trattasse degli schiavi neri o di donne belle e compiacenti che non vedevano "altra via verso il benessere materiale" che il proprio corpo: "Quella donna che l'uomo compera come la schiava sulle coste dell'Africa". Anche per questo la sua posizione politica può essere avvicinata a quella di Condorcet, come lei impegnato a difendere i diritti dei neri e delle donne.
Scrittrice di romanzi e di pièce teatrali, è convinta della funzione morale del teatro e della scrittura come mezzi per parlare al popolo. La stessa convinzione, sotto l'urto continuo degli eventi, ispira i testi politici. Sostenitrice della bontà dell'istituto monarchico, e perfino della bontà personale di un Luigi XVI rovinato da una corte corrotta, non esita, l'11 luglio 1789, a invitarlo a farsi da parte per calmare gli animi e sopire le fazioni. E proclama nel 1791: "Sono realista, sì, signori, ma realista patriota, realista costituzionale". Di nuovo, il 15 aprile 1792, chiede al re di abdicare, rivelando le proprie "inclinazioni repubblicane", fino a dichiarare un'anima "veramente repubblicana" (novembre 1792). Proprio nel difendere Luigi Capeto, il 16 dicembre 1792, si dichiara "una franca, leale repubblicana". Il vero repubblicanesimo imponeva di condannarlo all'esilio, non a morte, a riprova del valore universalistico della Rivoluzione compiuta in Francia: "Detronizzandolo, abbiamo infranto gli scettri del mondo intero".
Da un testo all'altro un termine rimbalza di continuo: quello di patriottismo, un concetto ripetuto nelle diverse declinazioni (amore della patria, salvezza della patria, ecc.). "Io non appartengo a nessun partito", proclama nel dicembre 1788. E nel settembre del 1789: "Io non conosco alcun partito: il solo che mi interessa davvero è quello della mia patria". Sono continui i suoi appelli ad accantonare qualunque spirito di parte in nome del bene comune. All'avvicinarsi della guerra predica la pace, per difendere la Costituzione, definita come "una delle grandi meraviglie del mondo" (22 marzo 1792), e per evitare i rischi terribili di una guerra civile e di una controrivoluzione.
Libertà di espressione, diritti politici, maternità e tutela dei figli, matrimonio fondato su un "contratto sociale tra uomo e donna", divorzio: queste le sue rivendicazioni. Pur dichiarandosi inesperta e estranea alla politica, assume prese di posizione sugli eventi, dalla guerra ai massacri di settembre. Alla fine del 1792 attacca violentemente il "miserabile Marat" e Robespierre, "l'abominio, l'esecrazione" della Rivoluzione, responsabili di un'insensata "guerra al genere umano". Al tempo stesso sembra vivere queste sue battaglie politiche e filosofiche come una crisi della sua identità femminile. Si descrive come una donna "che da tempo si è fatta uomo" (settembre 1790), "un vero uomo" (15 aprile 1792), "né uomo né donna" (5 novembre 1792), "più uomo che donna" (novembre 1792), per poi dichiarare: "Cercherò perfino di tornare a essere una donna" (dicembre 1792).
Da donna che voleva essere libera, indipendente, partecipe della vita pubblica, e per questo giudicata folle o collusa con il nemico, fu arrestata il 20 luglio 1793, condannata a morte il 2 novembre, ghigliottinata il giorno seguente. Molte sue opere furono distrutte. Fortunatamente sopravvivono, ancora attuali, questi scritti.
Anna Maria Rao
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