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Dinanzi ad una regressione socioculturale sempre più diffusa, Franchi si confessa, in questo antiromanzo, ammorbato da una forma di pessimismo antropologico e ritiene che occorra lottare per far emergere un nuovo centro culturale. Lo stato di precarietà in cui versa la sua generazione spalanca dinanzi a sé uno scenario privo di progettualità, in cui il quotidiano diviene scialo e si realizza nella ritualità delle convenzioni e nell’omologazione dei comportamenti. La civiltà è ormai preda di ritmi disumani, che ci sottraggono giorno dopo giorno idee e sapere, mentre il privilegio del denaro unito allo snaturamento del senso comune producono una costante inquietudine nelle nostre coscienze. Partendo dunque da questa amara constatazione l’autore decide di partire per un viaggio che spera possa condurlo a riappropriarsi del tempo dell’humanitas. E non sembri, l’utilizzo di questo termine, il vacuo ricorso ad una dotta citazione, o peggio un eccessivo atto di fiducia nei suoi propositi. Il suo atteggiamento lo assimila in maniera del tutto inequivocabile alla figura di quegli antichi umanisti, i quali non badarono unicamente a riproporre i valori di un mondo passato, ma inventarono addirittura l’antichità, creando una nuova mitologia fondativa della cultura europea. La via maestra è quella della messa in valore della cultura; una via che porta, attraverso la riflessione e la dotta consapevolezza, inevitabilmente tra i silenzi inquietanti della solitudine. E’ questa la ragione per cui non potremo parlare in questo caso di una fuga dal mondo nel compiacimento della propria personale erudizione, ma del ricorso ad uno strumento necessario di rieducazione al senso del bello e della virtù. Egli scrive in preda all’emergenza espressiva di una tensione liberatoria, consegnandoci un testo che non costituisce una maniera distaccata di osservare il mondo, né il tentativo di trascenderlo; ma che è la vibrante presa di posizione di un intellettuale, cui non fanno difetto il coraggio, la sincerità e la crudezza verbale.
E’ giovane Franchi, è disilluso, si sente isolato e allora escono dalle pagine del suo libro tutte le rabbie accumulate e che si vanno accumulando. Ce n’è per tutti, anche nella ricerca storica dei motivi per cui si è arrivati a tanto, e spesso ho avuto modo di concordare con le cause da lui identificate, ma soprattutto rimpiango di non avere più quella forza interiore che lui tramuta in un grido lancinante nel grigiore del silenzio, un urlo di libertà, fermo e al tempo stesso inerme, di chi dell’anarchismo ha fatto uno sbocco esistenziale. Pagano non è un libro da leggere come tutti gli altri, non sono pagine che servono per trascorrere il tempo, non sarà certamente osannato dai critici asserviti al sistema, ma è una grande riflessione sul destino di questa umanità, e pertanto richiede prima di tutto l’umiltà di accostarvisi come a una verità rivelata, e poi la ponderazione dei vari passi, il riconoscersi in ciò che siamo diventati, cioè sudditi inconsci di un mondo in cui la legge naturale dell’uomo che nasce libero è violata a favore chi nasce più libero degli altri. Dopo queste premesse, è lecito chiedersi se Pagano sia un bel libro e la mia risposta è che Pagano è un libro necessario, anzi indispensabile se l’uomo vuole ancora sperare in un mondo diverso. Leggetelo, ma soprattutto meditatelo, perché la vita è solo nostra e non possiamo permetterci il lusso di devolverla agli interessi altrui.
Non si nasconde, Franchi, anzi ricorda, osserva e denuncia. “Non scrive niente di comodo. Scrive la sua verità. Testimonianza impopolare”. Mette a nudo sé stesso, chiama per nome i propri nemici puntandogli contro parole di fuoco e riesce ad offrire un quadro perfetto del proprio contesto generazionale, passando dal personale al generale, “dal particulare all’universale”. E c’è una tale purezza nel modo in cui manifesta il suo sentire scrivendo, che sconvolge e lascia ammirati.
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