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La terra antica dell’elegante e controllato Savarese
«Grazioso ma secondario scrittore siciliano del primo Novecento». La definizione, riferita all’ennese Nino Savarese, è di Sandro Viola, uno dei fondatori del quotidiano La Repubblica, che a metà degli anni Ottanta fu inviato al centro della Sicilia per fare un ritratto di una provincia economicamente depressa, agli ultimi posti in Italia per reddito pro capite, fra scempi edilizi, iniziative culturali velleitarie, numeri altissimi di pensioni e impieghi pubblici. Un pezzo un po’ di maniera su Enna («Ombelico della Sicilia», secondo il poeta greco Callimaco), ma supportato da dati reali e che non faceva sconti nella sua analisi. Su Savarese, però, Viola aveva preso un granchio. E con lui tutti quelli che hanno fatto scivolare nell’oblio («edera rampicante», Sciascia dixit) uno scrittore che molto ha da dire anche al nostro presente. Scrittore di luce e ombre (specie nella rappresentazione di una Sicilia in chiaroscuro, tra colori del paradiso e inferno delle zolfare), dalla dimensione allegorica e visionaria, di fama nazionale durante il ventennio fascista, eppure non contiguo al regime, refrattario alla retorica interventista.
Tra quanti hanno remato nel verso opposto, però, ci sono tanti studiosi, e nel corso del tempo hanno levato la propria voce in favore dello scrittore (nato a Castrogiovanni, precedente nome di Enna, morto a Roma) anche nomi notissimi, da Sciascia a Camilleri, che non hanno esitato a indicare Savarese (emancipatosi in fretta dai modelli veristi delle primissime opere) come uno dei loro modelli di riferimento. I suoi libri erano spariti dalla circolazione, di Salvatore Sciascia e Sellerio gli ultimi tentativi di riportarlo in auge, ma la maggior parte della sua produzione è gelosamente custodita da chi la possiede nelle edizioni originali, alcune delle quali si possono rinvenire su siti internet, dove sono vendute a prezzi nemmeno esorbitanti.
L’intuizione e l’ostinazione della casa editrice palermitana Il Palindromo, ispirata dal critico Salvatore Ferlita che cura la collana Kalispéra Doc, ha riportato in libreria, di Savarese, I fatti di Petra, a inizio 2017. E adesso Savarese, sempre per il Palindromo, fa il bis in libreria, con Rossomanno (212 pagine, 12 euro), pubblicato originariamente nel 1935, storia di una terra antica, di un feudo, ennesima dimostrazione del talento di uno scrittore magari provinciale, ma non per questo marginale, anzi aperto a istanze e stimoli dei più moderni. Elegante, controllata, con un’aggettivazione efficacissima, in linea coi dettami della Ronda, è la prosa di Savarese, ma questo non si trasforma in formalismo e affettazione, non significa che il lettore si troverà davanti pagine fredde o, peggio, vuote. Strambo e appartato, in vita, Savarese ripercorre la cronologia dell’ex feudo dalla dominazione araba e normanna, passando per Federico II fino al suo presente («Oggi Rossomanno è una contrada di quattrocento salme. I Bova ed i Leto ne possiedono le tenute più grandi…»), in un susseguirsi di eredità, una terra solitaria dove è difficile sovvertire l’ordine sociale, dove l’eco delle guerre e delle lotte dinastiche giungeva raramente, dove la Storia prova a irrompere, ma al massimo è filtrata da occhi e osservazioni semplici, di gente comune, pecorai, mezzadri, mietitori. Savarese è perfetto cantore dell’entroterra, un mondo stabile e immutabile.
Recensione di Giovanni Leti
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