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Non c'è solo Nadia Campana poetessa, c'è anche e soprattutto una grande Nadia Campana traduttrice...che poi, è la stessa cosa. Difficile essere un traduttore di poesia di pregio senza essere, almeno intimamente, un poeta. Ma esser poeta e traduttore non significa , per forza, saperne dire, saper argomentare circa l'atto di trasmutazione delle parole altrui; Nadia Campana sapeva fare anche quello. Sapeva fare 'traduttologia' ante litteram. E sapeva senza dubbio dare voce a cosa sia la fiducia e la disperazione nella parola.Quella che frequenta è una territorialità aperta: poesia, traduzione e critica delle stesse. 'Critica 'intesa nel suo senso originario quale esercizio della facoltà umana che permette di esaminare il risultato delle azioni, dell'operato di qualcuno. Un po' l'idea di poetica alla Luciano Anceschi: poeti che sanno dire del loro fare poesia. Qui di certo Nadia Campana sa dire di come si traduce poesia, o, almeno, di cosa l'ha guidata nel farlo. Tra le righe si sente forte il suo credo: "mostrare che non c'è uscita dalla paranoia e dalla mancanza di significato" oltre a misurare" la distanza infinita che ci separa dalla verità". Forse la sua poesia non fa che dirci questo. Mentre le sue traduzioni, rare eppure zecchine, imperdibili, provano a condividere questa impossibilità di percorrenza con un'altra voce, intrattenendo con l'altro' un gioco di specchi'. Imperdibile se si vuole assurgere alla poesia della Campana e al suo pensiero sulla poesia e sulla traduzione.
Se per poesia si intende il discrimine “tra mondo interpretato e assenza del mondo”, comprensione del caos da trattenere in “una misura stretta”, conoscenza che aumenta “il dolore come esercizio” con “furibondi attacchi di malinconia”, e infine “sfracellamento contro gli scogli del quotidiano”, è specificamente nella scrittura femminile che Nadia Campana avverte la possibilità originaria di un’autoesclusione, non solo dalla vita concreta, ma addirittura dal proprio corpo, per una sorta di dissoluzione del desiderio quando questo si scontra con la banalità del reale, e produce stanchezza, “voglia di essere inerti… precoce invecchiamento”. Nei due testi dedicati a Emily Dickinson, di rara perspicacia interpretativa e introspezione psicologica, si mette in luce essenzialmente la rivoluzione linguistica effettuata dalla poetessa americana, da lei pagata con una eccentricità rispetto al mondo, con la devianza dai valori comunemente accettati nel puritanesimo ottocentesco del New England. Una poesia, la sua, lontana dalla fisicità dei fatti, dalla fenomenicità, dal fascino dell’incontro partecipato, e invece tutta protesa verso la vertigine della riflessione, dell’intelligenza delle cose, nella conquista di significati cruciali: “La scrittura al posto del corpo, un pezzo di carta al posto di un’emozione toccabile, mostrata”. In altri due saggi Nadia esplora, con un’immedesimazione quasi presaga della propria drammatica scelta finale, il dolore e l’amore che hanno reso eterni i versi di Marina Cvetaeva, nella cui morte volontaria sembra iscritto il destino ineluttabile di chi si getta “contro le cose, fuori dall’adeguamento e dalla registrazione, per toccarle con l’incandescenza”. La dedizione generosa e appassionata con cui Cvetaeva interiorizzava ogni altro da sé aveva qualcosa della sacralità del sacrificio, dell’abnegazione di un’offerta che sa annullarsi, non essendo più desiderio o possesso, ma tenerezza, affetto, fratellanza, sym-patheia priva di qualsiasi opacità.
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