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Scritto da Giuseppe Antonio Borgese ed uscito nel lontano 1923, I vivi e i morti (408 pagine, 14 euro) torna in libreria con l’introduzione critica di Gandolfo Librizzi, grazie alla ormai costante opera di recupero dei grandi del passato, iniziata e portata avanti con coraggio e determinazione dalla casa editrice Il Palindromo (che non a caso ha curato anche le nuove uscite dei libri di Nino Savarese).
Giuseppe Antonio Borgese, scrittore, docente universitario, critico letterario e giornalista, nacque a Polizzi Generosa, in provincia di Palermo, ma visse essenzialmente tra Torino, Roma e gli Stati Uniti, dove insegnò all’università. Morì a Fiesole nel 1952. Personaggio di spicco dell’accademia – che tentò invano di svecchiare – si inserì spesso nel dibattito culturale e politico della sua epoca, distinguendosi anche per la lungimiranza delle sue analisi, non sempre, in verità, comprese fino in fondo.
Riferimenti e rimandi letterari (espliciti e non) arricchiscono, con tatto, il romanzo, con numerose ed opportune sortite nel sempre generoso universo dei classici: da Virgilio a Dante, da Leopardi a Dante Gabriel Rossetti, da Pascal a Manzoni, senza dimenticare – e certamente non a caso – la lettera di San Paolo ai Corinzi, dove “il più piccolo tra gli apostoli” scrive anche “Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore”.
Un esercizio non fine a se stesso, quello di Borgese, che fornisce l’abbrivio a una storia densa, ma mai pesante, in perfetto equilibrio tra gli innegabili – ma non centrali – riferimenti autobiografici (in modo assai ingeneroso, scrive del protagonista e, quindi, di sé stesso, “nel giornalismo e nell’insegnamento non era stato che un passante, assai distratto”) e l’altro tema – questo sì, fondamentale – dell’indagine interiore. Che il protagonista porta avanti, interrogandosi senza sosta sul grande dilemma dell’immortalità, da un lato, e della finitezza, dall’altro, in un percorso che arriva a comprendere persino una sortita non pronosticata dalle parti dell’occultismo (una moda, presso letterati più o meno noti, con Casimiro Piccolo, ricordiamo, vera e propria autorità in materia).
Ne “I vivi e i morti”, Borgese si affida ad uno scritto colto e profondo (ma, come sottolineavo, sempre con misura) per affrontare i temi della vita e della morte (in verità, più della prima che della seconda), e – sottolinea Gandolfo Librizzi – «del senso del nostro stare al mondo». All’origine della storia, l’inconsueto percorso intrapreso da Eliseo Gaddi, il professore, che «coi capelli ancora neri, con le forze della giovinezza quasi intatte» abbandona «le lusinghe della vita cittadina e qualunque cosa fa vago e desiderabile il futuro» per «ritrarsi a meno di quarant’anni in questa campagna sterminata e piana, ove non è nulla che non ricordi la perpetuità del cielo e il breve tempo d’ogni cosa terrestre».
In un continuo inizio che spesso assume più le sembianze di una tragica fine, Eliseo, novello Sisifo, si scontra dapprima in modo irreparabile con il fratello e, seppur con qualche indecisione, si ritrova, poi, a gestire un intimo travaglio, la cui origine gli resterà oscura per molto tempo.
«Questo congedo, quest’accettazione non so dire per quanta parte io stesso li abbia voluti, e per quant’altra me li abbia comandati la necessità, né v’ha necessità senza dolore» commenta, alla ricerca di risposte, quando senza timore decide di vivere appieno la vita nel suo nuovo mondo, mentre quello che si è lasciato alle spalle – per lui, solo un’autentica distrazione – continua a far sentire, forte, il suo richiamo ammaliatore.
Senza successo, in verità, perché Eliseo ha già fatto la sua scelta, dolorosa e al tempo stesso necessaria, che lo impegnerà nel tentativo di risolvere i numerosi e complicati enigmi che si frappongono tra l’uomo e l’autentico pensiero della morte, inteso come «un sentimento di piacere». Perché vivere significa, non certo tremare all’idea della morte, ma comprendere che questa «rapisce l’anima e la fa danzare, come fa il vento quando investe le foglie verdi, bene attaccate ai rami».
I temi trattati potrebbero far pensare ad un romanzo buio, persino lugubre. I vivi e i morti è, viceversa e soprattutto, una storia sulla vita e sulla natura. Che, rotti gli indugi, Borgese non esita a descrivere con trasporto: «Prima d’imbrunire l’azzurro si irraggiò di letizia. Gli alberi erano irrorati, tra foglia e foglia, di cielo, come giovani corpi pieni di libero sangue vivace» annota, grato e commosso, per quello che l’occhio vede e che l’esistenza ci offre. E quando, dopo avere messo in bocca a Michele il dialogo delle Bucoliche tra Titiro e Melibeo, parla dell’estate che «culminando, diffuse quel senso di stabilità che le altre stagioni non hanno», lo immagino, a poco più di 95 anni di distanza, rapito dalla partitura vivaldiana, intento a descrivere un’estate che dopo avere diffuso “quel senso di stabilità che le altre stagioni non hanno” aspetta l’immancabile temporale dal “rombo, minaccioso per celia, familiare agli orecchi, e atteso come l’altre vicende del giorno”. Lo so, state pensando ai movimenti del prete rosso. Sono d’accordo con voi, per parole così immortali, la colonna sonora non può che essere quella. Fidatevi, se volete. Ho fatto la prova.
Recensione di Camillo Scaduto
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