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Raccogliere in volume una numerosa serie di articoli occasionali, scritti originariamente per i giornali, raramente è una buona idea. Nel caso di De Cecco, invece, senza dubbio lo è. Gli articoli già pubblicati su "la Repubblica" o sul suo supplemento "Affari & Finanza" tra il 2000 e il 2006 sono distribuiti in quattro capitoli (Il ritorno dell'incertezza; L'economia in tempo di guerra; Le incertezza dell'Europa; Le incognite italiane) e collocati in forma cronologica entro ciascun capitolo. Chiude il volume un utile indice dei nomi. La ragione per cui si tratta di una buona, una buonissime idea, è molto semplice. La loro rilettura in successione, organizzata per grandi temi, consente al lettore (che sia specialista o meno di cose economiche) di non perdere la prospettiva generale dell'autore e le connessioni ch'egli stabilisce tra i problemi, che possono invece sfuggire, in tutto o in parte, nella lettura del singolo articolo di giornale. Chiave interpretativa e interconnessioni sono caratteristiche essenziali di una buona macroeconomia applicata all'economia globale.
De Cecco non nasconde né smussa gli angoli della sua visione interpretativa forte e critica sui più importanti problemi macroeconomici americani, europei e italiani all'alba del nuovo secolo. Sul piano teorico il suo è un punto di vista inequivocabilmente keynesiano "non edulcorato". Ma naturalmente si guarda bene dal farlo coincidere con la vulgata scolastica secondo cui il keynesismo si identificherebbe con le politiche monetarie e fiscali espansive, tipica espressione della filosofia antimercato e interventista delle sinistre. Contro cui si ergerebbero, a contrasto, le forze sane del neoliberismo, del monetarismo, del rispetto, insomma, delle forze di mercato, della sana gestione dei bilanci pubblici, del cambio e dell'equilibrio nei pagamenti internazionali, di cui sarebbero custodi naturali le forze politiche e i governi di centro destra.
La storia recente (e meno recente) ci mostra ormai ripetuti esempi dell'esatto contrario. Già Ronald Reagan si era fatto notare per i suoi disavanzi strutturali nei conti pubblici e con l'estero. Ma è soprattutto all'alba del nuovo secolo che gli Stati Uniti di George Bush e di Alan Greenspan adottano politiche fiscali e monetarie talmente espansive da non avere precedenti, secondo De Cecco, se non nel corso delle due grandi guerre mondiali del Novecento. "D'accordo con i suoi colleghi dei maggiori centri finanziari mondiali, Greenspan ha pompato liquidità in dosi enormi a partire dal 12 settembre 2001 e ha continuato a farlo per più di tre anni. (
) Il mondo ha vissuto (
) da allora in condizioni proprie del tempo di guerra, quando le regole dell'economia monetaria di pace sono sospese". Nel gran lago di liquidità creato dalle autorità monetarie degli Stati Uniti (e del Giappone) il ciclo economico normale non si manifesta. D'altra parte, George Bush sacrificava rapidamente l'equilibrio fiscale americano (che Clinton aveva ristabilito e mantenuto negli anni dei suoi mandati), portando i conti esteri a livelli di deficit mai prima sperimentati dagli Stati Uniti.
Le conseguenze di questi squilibri americani si riflettono sia a oriente che in Europa. A oriente, Giappone, Cina e India hanno deciso di tenere quasi fissi i cambi delle proprie monete contro il dollaro, anche se ciò non riflette le loro reali condizioni di competitività (che dovrebbero indurre quelle monete a una rivalutazione), e questo porta a un gigantesco flusso di dollari nelle loro riserve, che corrisponde al loro surplus con gli Stati Uniti e con il resto del mondo. In questo senso, De Cecco sostiene che fra questi paesi e gli Stati Uniti si è venuta a creare una sorta di nuovo sistema di Bretton Woods, con la conseguenza che la moneta comune europea, l'euro, è "l'unica moneta importante al mondo veramente libera per scelta politica dei paesi che l'hanno creata di fluttuare nei confronti delle altre monete". Questo ha portato, nel periodo più recente, a una forte rivalutazione dell'euro nei confronti del dollaro, che mette in difficoltà le esportazioni dei paesi europei nel resto del mondo, e avvantaggia i concorrenti americani e asiatici.
L'euro forte, tuttavia, per certi aspetti inevitabile, secondo De Cecco può avere anche i suoi vantaggi, soprattutto, in primo luogo, se chi gestisce la politica monetaria europea non pretende di tornare alla prassi e alle regole che seguiva a suo tempo la Bundesbank tedesca, da cui la Bce si è per fortuna progressivamente allontanata, anche sotto il profilo tecnico (si vedano in proposito le interessanti considerazioni sull'abbandono del controllo della grandezza monetaria M3, rivelatasi priva di significato), nonostante la Bundesbank sia stata il modello di riferimento iniziale. E se, in secondo luogo, dopo aver smesso di "predicare a tutti i venti la necessità di rendere più flessibile l'economia europea", si raccoglie la bandiera che fu a suo tempo del marco forte, quando la Germania occidentale seppe sfidare il terremoto monetario degli anni settanta e ottanta "con un accordo duttile e ferreo a un tempo tra imprenditori, sindacati e governo, garantito da una politica severa della banca centrale, da alti salari, alta produttività, eccellente Welfare". É questo, in effetti, per De Cecco, il vero manifesto economico per una nuova Europa.
Utopia? Forse, soprattutto se si guarda alle più familiari vicende italiane. Qui il tono dell'autore si fa molto più pessimistico, dopo la "serie di shock negativi indotti dalle singolari misure di politica economica adottate dal governo di centrodestra. L'ideologia del Lumpen Thatcherismus dell'ex presidente del Consiglio e del suo fido ministro dell'Economia Tremonti si è risolta in una subdola e prolungata manovra di redistribuzione del reddito e della ricchezza, che ha minato ulteriormente la competitività internazionale del paese". E anche "dopo il cambio di governo, chi cerca di guardare lontano non può nascondere un fondato pessimismo" di fronte alle possibilità di arrestare il declino dell'economia italiana.
Gian Luigi Vaccarino
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